31° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier

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31° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier
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Sito ufficiale del festival: http://www.cinemed.tm.fr/
31mo Festival du Cinema Méditerranéen
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La 31ma edizione del Festival du Cinéma Méditerranée di Montpellier ha coronato in modo particolare tre titoli. Il maggior riconoscimento, l’Antigone d’oro e 47.000 euro da utilizzarsi in maniere diverse, è andato ad Ajami, film che aveva già ottenuto una menzione speciale della sezione Camera d’Or (miglior debutto) al festival di Cannes 2009. L’opera è firmata dall’israeliano Yaron Shani e dal palestinese Scandar Copti che hanno impiegato ben sette anni per portarla a termine. Il quartiere di Ajami, a Jaffa, è uno dei tanti luoghi in cui si mescolano razze e religioni, legalità e delinquenza. Il film è diviso in due parti che corrispondono ad altrettante storie.
La prima racconta la faida che si apre fra una famiglia palestinese e un clan beduino dopo che un palestinese ha ferito gravemente un beduino che si era presentato a riscuotere il pizzo nel ristorante gestito da un membro dell’altro gruppo. La mediazione di un venerabile potrebbe anche portare alla pace fra i due gruppi, sennonché la somma stabilita come risarcimento del torto è talmente alta da non poter essere pagata. A questo punto inizia la seconda storia. Un giovane palestinese lavora in nero in un ristorante per raccogliere il denaro necessario a far operare la madre. Qui incontra un quasi coetaneo che sogna un futuro di pace al fianco della fidanzata israeliana. Un altro personaggio, destinato ad avere un’importanza vitale nel racconto è un poliziotto israeliano che vive nella speranza di vendicare un suo fratello trovato morto nel fondo di una grotta. Queste storie s’incroceranno in un finale dai toni grandguignoleschi in cui, alla maniera dei film di Quentin Tarantino, le sparatorie e il sangue si mescolano sprazzi d'ironia.
Ajami
Ajami
Così raccontato il film, può sembrare persino banale sennonché i due registi s’industriano a mescolare tempi e luoghi, a fare vedere l’oggi prima dello ieri, a trascurare volutamente passaggi normativamente importanti lasciandoli alla fantasia dello spettatore. E’ un processo narrativo non lineare di cui non sempre si comprende la necessità estetica. Allo stesso modo la scelta stilistica di favorire le atmosfere cupe se, da un lato, appare funzionale al sostanziale pessimismo degli autori sulla speranza di una vera pace fra le genti d’Israele, dall’altro affatica lo svilupparsi del racconto rendendo alcune parti più oscure del necessario. In definitiva è un testo a tratti pregevole, sovrabbondante e non sempre lucido.
Ritorno  a Hansala
Ritorno a Hansala
Il secondo titolo che ha attinto al palmares è stato Retorno a Hansala (Ritorno a Hansala) della spagnola Chus Gutierrez che ha portato a casa il Premio della critica e quello per la migliore musica con l’aggiunta di 3,200 euro. Un impresario di pompe funebri di Algésiras, specializzato nel rimpatrio delle salme degli immigrati clandestini annegati nel tentativo di raggiungere la Spagna dal Marocco, assume l’incarico di rimpatriate il cadavere di un giovane, fratello di una bella africana che vive da qualche tempo nella penisola iberica. Il trasporto costa 3 mila euro che la donna non ha, stringe allora un accordo con l’agente funerario: gli da subito un anticipo, viaggerà con lui e il saldo avverrà alla consegna della bara nel piccolo villaggio da lui fratello e sorella sono partiti. Per lo spagnolo il percorso si trasformerà in un’immersione nella consapevolezza delle dure condizioni in cui sono costretti a vivere i marocchini poveri, nella testimonianza della loro umanità e in un forte senso di fierezza. E’ un film generoso, commuovente, lucido nello sguardo delle miserabili condizioni in cui sono costretti questi dannati della terra. La struttura narrativa ha un taglio classico, che assume connotati quasi documentari quando s’immerge nella vita del povero villaggio marocchino. L’andamento del racconto è piano, con molti momenti commuoventi che mettono in ombra il facile lieto fine e la prevedibile, castissima storia d’amore fra i due protagonisti. In poche parole, è un’opera limpida e semplice.

Fortapash
Fortapash
Terzo sul podio Fortapàsc del nostro Marco Risi che ha vinto il premio del pubblico con una dotazione di 4.000 euro. Il 23 settembre del 1985, alle otto e mezzo di sera, un comando della camorra uccise Giancarlo Siani, sparandogli mentre era ancora al posto di guida della sua scassata Citroen Mehari ed era appena arrivato davanti casa nel quartiere del Vomero, a Napoli. La colpa gravissima del giovane, aveva compiuto 26 anni quattro giorni prima, era di aver scritto una serie di articoli sul giornale Il mattino in cui denunciava gli affari dei clan, la guerra fra le famiglie Nuovoletta e Gionta per il controllo del traffico di droga e l’intreccio fra politica e criminalità a Torre Annunziata. L’ucciso era un giovane sensibile ai problemi sociali e appassionato di un lavoro che svolgeva da abusivo, avrebbe dovuto firmare il contratto di praticantato da lì a pochi giorni, presso la redazione di Castellammare di Stabia del quotidiano. L’intreccio fra amministratori locali e camorristi lo aveva scoperto quasi per caso e si era gettato sulla traccia con l’istinto del vero cronista che non esita a rischiare pur di catturare la notizia. Ci vorranno dodici anni e tre inchieste per arrivare alla condanna di mandanti - Angelo Nuvoletta, Valentino Gionta, Luigi Baccante - ed esecutori - Ciro Cappuccio, Armando Del Core - dell’omicidio. Con Fortapàsc (modo in cui in napoletano di pronuncia Fort Apache, titolo di un film di John Ford del 1948 sull’assedio, nel far west, di un fortino da parte degli indiani) Marco Risi ripercorre gli ultimi mesi di vita di questo ragazzo e lo fa con un racconto che si riallaccia sia al cinema sociale americano degli anni quaranta, sia a quello di Francesco Rosi, da Salvatore Giuliano (1962) a Le mani sulla città (1963). E’ un approccio che ricalca la cronaca - i protagonisti sono chiamati con i loro veri nomi, i luoghi sono quelli in cui i fatti si sono svolti – ma lo fa rileggendola secondo un filo interpretativo preciso e documentato. E' in questo modo che l’opera di scosta dalla semplice ricostruzione per diventare interpretazione e presa di posizione precise e vigorose. E' un cinema civile corroborato da un preciso rigore stilistico e da una consumata abilità narrativa. Un fascino particolare arriva, poi, dalla scelta d’interpreti le cui fisonomie dicono spesso più cose di quante potrebbero elencare le parole.
Dente canino
Dente canino
Poco condivisibile il riconoscimento decretato dalla giuria del Pubblico Giovane andato, con 2.000 euro in aggiunta a Kynodontas (Dente canino) del greco Yorgos Lanthimos, film che aveva già ottenuto il maggior riconoscimento della sezione Un Certain Regard dell’ultimo festival di Cannes. Sono premi che è difficile condividere, così come gli altri riconoscimenti che ha ottenuto in seguito. Un dirigente di una grande azienda ha recluso, complice la moglie, i tre figli, due femmine e un maschio, in una bella villa circondata da un altro muro. Ai ragazzi, che nulla sanno del mondo esterno, è fatto divieto assoluto di superre il cancello che delimita la proprietà. E’ un piccolo mondo dotato di sue regole, in cui le parole hanno significati del tutto diversi da quelli d’uso comune, dove ogni pulsione, comprese quelle sessuali, è soddisfatta in famiglia. La sola vaga promessa di libertà la fa il capo di casa rispondendo a una domanda della figlia maggiore che gli chiede quando potrà uscire e imparare a guidare l’automobile. La risposta è quando ti cadrà il dente canino destro, così che la giovane, sempre più ansiosa di conoscere ciò che c’è oltre il muro, si colpisce la dentatura sino a perdere il dente indicato, poi s’infila nel bagagliaio della macchina del padre e vi muore soffocata. Alcuni hanno visto in questa strana storia una sorta di metafora del vivere sotto una dittatura o la raffigurazione dello spirito chiuso di chi rifiuta il contatto con gli altri, diversi o stranieri che siano. Non è facile condividere queste valutazioni in quando il film si presenta, più che una complessa metafora, come la radiografia di un caso si follia non priva di momenti di compiacimento conducibili alle varie scene di sesso. Più una forma di ricerca dello scandalo fine a se stesso che non l’invito a una riflessione di ampia portata. Lo stesso andamento narrativo e stilistico non evita una piattezza che non è per nulla voluta ma imposta da scarsa fantasia espositiva.

Uomini sul ponte
Uomini sul ponte
Il festival aveva in cartellone moltissimi titoli, ben 239 fra lungo o corto metraggi, opere nuove e di retrospettiva. Cerchiamo di dare qualche indicazione sui più significativi comparsi nella sezione competitiva. In Köprüdekiller (Uomini sul ponte) dell’esordiente Asli Özge ci sono tre personaggi che ruotano attorno al ponte sul Bosforo che unisce, a Istanbul, l’Europa all’Asia. Fikret sopravvive vendendo rose agli automobilisti, s’insinua fra le auto in coda collezionando più maledizioni che denari. Umut guida un taxi collettivo, dalmus, ha un impegno precario e una moglie insoddisfatta delle condizioni economiche con cui deve fare i conti. Murat è un agente di polizia addetto al traffico, cerca disperatamente una compagna su internet senza riuscire a trovarla. Tre storie che disegnano un mosaico realistico e complesso di una città mostruosa e affascinante. Tre stati di solitudine e infelicità che sfociano nel fanatismo nazionalista anticurdo, nel rassegnato servizio a favore dell’ordine comunque costituito, nella disperazione economica nata dall’ignoranza e l’emarginazione. Un film di taglio fra il documentario e il neorealista, con una bella costruzione psicologica e un ritratto molto interessante di quella miseria di destra che qui e non solo qui è il terreno fertile di molti regimi autoritari.
Lo spazio bianco
Lo spazio bianco
Nel libro Lo spazio bianco Valeria Parrella racconta la gravidanza e il dramma di Maria, insegnate poco più che quarantenne di scuole serali napoletane, costretta a gestire una gravidanza indesiderata nata dalla relazione con un uomo più giovane di lei che, appena avuto notizia della cosa, è scomparso. Per giunta il parto arriva prematuro e nessuno è in grado di dire alla madre se l’esserino che ha dato alla luce, una bimba di nome Irene, sopravvivrà o no. Francesca Comencini è partita da questo testo per costruire uno straordinario quadro di donna in attesa, una figura moderna, scettica ma socialmente impegnata, solitaria ma assetata d’amore. E’ il ritratto, raffinato e preciso, di una condizione psicologica complessa che si sviluppa e modifica in quello spazio bianco che è la sala prematuri di un grande ospedale. Un luogo in cui sono allineate incubatrici che ospitano esseri minuscoli sospesi fra la vita e la morte. Maria passa due mesi in questo spazio, accanto a sua figlia lottando con lei per conquistare una vita che, in astratto, sino a pochi mesi prima, le era sembrata quasi priva di senso e che ora assume la pienezza di un’esistenza tutta da costruire e vivere. E’ un bel film sorretto dall’interpretazione intensa e magistrale di Margherita Buy che riesce a far vivere in modo credibilissimo una donna di mezza età assetata di vita, ma travolta da un’esperienza sconosciuta che, all’inizio, vive quasi con rabbia, salvo, poi, coglierne grandezza e positività. E' un grande saggio d’attrice per un film di straordinaria forza comunicativa.
9:06
9:06
9:06 dello sloveno Igor Sterk ruota attorno alla complessa psicologia di un poliziotto in crisi familiare – ha divorziato da poco dalla moglie che lo accusa di essere responsabile dell’incidente d’auto in cui è morta la loro figlia – chiamato a indagare sul suicidio di un pianista omosessuale che si è gettato da un alto viadotto. Progressivamente l’agente entra nei panni del morto, ne occupa la casa, concupisce l’amante e s’identifica in lui siano a uccidersi nello stesso modo. Il titolo richiama l’ora del doppio suicidio, che è anche quella in cui il cosmonauta russo Jurij Alekseevič Gagarin (1934 – 1968) compì, il 12 aprile 1961, la prima missione nello spazio a bordo della navicella Vostok 1 (Oriente 1). La costruzione psicologica è molto accurata e l’interpretazione di Igor Samobor è di primissima qualità, così come la struttura del racconto e lo sviluppo della storia. In poche parole un piccolo gioiello concepito, all’origine, come un telefilm, ma che proprio nella misura contenuta del racconto, un’ora e 11 minuti, trova la secchezza indispensabile a realizzare una costruzione precisa e coinvolgente.
Lune di Miele
Lune di Miele
Medeni mesec (Lune di miele) è una coproduzione serbo – albanese, quasi un piccolo miracolo tenuto conto dei difficili rapporti fra i due paesi. A riuscire nell’impresa è stato il cineasta di lungo corso Goran Paskaljevic, nella cui filmografia s’incontrano non pochi titoli tesi alla rappacificazione fra le comunità, fra cui ancor oggi corrono rapporti tesissimi, che un tempo formavano la repubblica Jugoslava. Citiamo per tutti Bure baruta (La polveriera, 1998) e Optimisti (Ottimisti, 2006). Questa sua ultima fatica mira a svelare le misere condizioni in cui navigano serbi e albanesi; lo fa attraverso le storie di due coppie che tentano disperatamente di rifarsi una vita fuori dai rispettivi paesi d’origine. Due giovani schipettari decidono di tentare la fortuna in Italia, ove si è già diretto il fidanzato della donna che non ha più dato notizie di sé. Ora il fratello ha trovato la forza per dichiarare il suo amore alla promessa sposa sfidando le ire dei parenti. La fuga d’amore s’infrangerà a Brindisi, dove poliziotti violenti e grossolani li separeranno, imprigionando l’uomo, considerato sospetto poiché ha il passaporto pieno di timbri del Kosovo, ove andava in cerca di lavoro. Sorte non diversa capita ai due serbi che, con tutti i permessi in regola, tentano di raggiungere Vienna, ove l’uomo, un promettente violoncellista, è atteso per un’audizione. I poliziotti magiari, solo un filo meno beceri di quelli italiani, li separeranno mandando in frantumi i loro sogni e questo a causa dell’origine kosovara dell’uomo. In entrambi i casi, la partenza avviene nel quadro di due matrimoni, quello volgare dei nuovi ricchi albanesi e quello sanguigno e teso delle eterne faide serbe. Il regista conferma la sua forte avversione per la guerra, in particolare per i conflitti fratricidi che hanno insanguinato la sua terra. Prese singolarmente le due storie funzionano bene, è il legame che si vorrebbe instaurare fra loro a rimanere sospeso e alquanto indeterminato. Come dire che ci sono più principi enunciati che soluzioni viste, anche se, nel complesso, il film si mostra accettabile.

Drammi occidentali
Drammi occidentali
Eastern Plays (Drammi occidentali) del bulgaro Kamen Kalev è il classico ritratto delle drammatiche condizioni, morali e materiali, in cui sono piombati i paesi ex – socialisti dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Qui il filo del racconto passa attraverso le storie di due fratelli: un artista frustrato, appena uscito dal baratro della droga, e un giovane tentato dalla violenza di una banda fascista e razzista. Tutt'attorno ci sono famiglie distrutte, donne emarginate, politici disposti a usare la delinquenza comune per raggiungere i propri obiettivi di potere. Esaminato da un punto di vista stilistico, il film non contiene grandi elementi di novità, ma ha il pregio di ribadire con forza lo stato di profonda decadenza e violenza diffusa di cui sono preda molti paesi dell’ex Europa orientale.
1 a 0
1 a 0
Wahed – Sefr (Uno a zero) di Kamela Abu Zekri è un brutto film egiziano con non poche sfumature di regime, cosa che non sorprende, visto che è stato finanziato quasi per intero dal Ministero per la Cultura de Il Cairo. Sono varie storie che s’intrecciano e confluiscono in una notte molto particolare, quella di domenica 10 febbraio 2008 in cui si gioca la finale della Coppa delle Nazioni Africane fra le nazionali egiziana e camerunense. La vittoria arriderà ai cairoti per uno a zero (gol di Mohamed Aboutreika al 70’). Attorno a queste ore di tifo acceso si sviluppano le storie di una donna ricca che ha per amante un giovane e cinico intrattenitore televisivo, una ragazza osservante amata da un timido garzone di panetteria, una piccola imbrogliona che vende privatamente creme che dice essere miracolose e il cui figlio, apprendista parrucchiere, sta cercando aprire un suo negozio strappando le clienti al vecchio padrone. Tutte queste vicende confluiscono in un commissariato di polizia in cui un dirigente bonario, tollerante ed esaltato dalla vittoria della nazionale, manderà tutti a casa felici e contenti. Il film ha un taglio a dir poco buonista, sia nei confronti dei personaggi, sia verso il governo che appare rappresentato da funzionari tolleranti, disponibili e intelligenti. E' un’opera mal costruita, con una regia zoppicante e una storia piena di buchi, come dire un film da dimenticare.
La lunga notte
La lunga notte
Al lail al talee (La lunga notte) dell’attore e regista siriano Hatem Ali si apre con il protagonista che recita alcuni versi tratti una scena del Re Lear di William Shakespeare (1564 – 1616): Soffiate, venti, sin a farvi scoppiare le gote, infuriate, soffiate! / Turbini e cataratte del cielo, diluviate / sino ad affogare le banderuole giravento in cima ai campanili. Un preannuncio di tempesta che ben si attaglia a questa storia, che inizia in una cupa prigione siriana in cui sono detenuti quattro intellettuali dissidenti che hanno scontato già una trentina d’anni di galera. Il governo decide di liberarne tre che sono restituiti a un mondo completamente diverso da quello che avevano lasciato. C’è il fratello che ha fatto carriera come avvocato, inserendosi perfettamente nelle maglie del regime, c’è la figlia che ha preferito fuggire e rifarsi una vita a Parigi, c’è il nipote che continua cocciutamente e disperatamente a contestare il potere, ma senza troppe speranze di successo. Uno dei tre, quello dotato di maggior carisma e prestigio, anziché ritornate a casa dai parenti preferisce andare a morire nella dimora in cui è nato, una villa imponente ora semideruta. E’ un film dalla forte componente teatrale, con la macchina da presa spesso ferma davanti a personaggi che dialogano o intenta a riprendere lunghi primi piani dei protagonisti. Il tutto in un’atmosfera volutamente cupa che preferisce le parole alle immagini. Un’opera politicamente molto importante, visto che arriva da uno dei regimi più longevi e crudeli della storia mediterranea, ma che aggiunge poco allo sviluppo del linguaggio filmico. Certo, il dolore, la disperazione e la denuncia ci sono tutti, ma quello che manca e la dinamicità di un discorso che appare come immobile nel tempo, privo di coordinante reali, teso più al trionfo della recitazione che non alla comprensione del dramma.

Nel mondo delle meraviglie
Nel mondo delle meraviglie
Uzemlji cudesa (Nel mondo delle meraviglie) del croato Sorak Dejam affronta uno dei lasciti più drammatici delle guerre che hanno accompagnato la dissoluzione della Jugoslavia, quella dell’uso, da parte della NATO, di proiettili a base di uranio impoverito, quello stesso munizionamento il cui uso la procuratrice internazionale Carla del Ponte ha definito, nel 2001, crimine di guerra. In un terreno vago, nell’ovest della Bosnia Erzegovina, la novenne Alica raccoglie, assieme allo zio Valentin, frammenti di bombe e grandi bossoli di armamento per cannoni. Fanno questo pericoloso lavoro per sopravvivere in qualche modo alla miseria e alla fame. La maledizione dei proiettili a uranio impoverito ha colpito anche loro. Quando i medici diagnosticano il cancro a entrambi, per l’adulto è ormai troppo tardi mentre per la giovinetta ci potrebbe essere qualche speranza, ma la cura è costosissima e si pratica sono in ospedali specializzati. La madre, per raccogliere il denaro necessario, va a prostituirsi in Germania, ma anche questa scelta si risolverà in un fallimento. Solo l’incontro con un ex – militare, solitario e miserabile, aprirà uno spiraglio di luce per la guarigione della piccola, che avverrà a prezzo della vita dell’ex – combattente. Sin dal titolo il film richiama il libro di Lewis Carroll (Charles Lutwidge Dodgson, 1832 – 1898) Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie (Alice's Adventures in Wonderland, 1865) con un bel po’ di fantasia in meno e una buona dose di protesta sociale in più. Indignazione per le conseguenze di una guerra in cui non è stata rispettata neppure l’incolumità dei propri combattenti – sono centinaia i casi di militari ammalatisi di cancro causato dal contatto con questo tipo di ordigni – si accompagna una visione cupa, simboleggiata dai paesaggi lunari in cui si sviluppa la prima parte della storia, del futuro. Un avvenire su cui peseranno per decenni le conseguenze di un conflitto che ha visto gli esseri umani trasformati in belve preoccupate solo della propria sopravvivenza. Operazione civilmente nobile, ma non sorretta da un’adeguata capacità del linguaggio filmico. Un’opera generosa, ma di fragile struttura espressiva.
Strella
Strella
Strella (Stella) del greco Panos H. Koutras ha al centro George, uscito di prigione dopo aver scontato 14 anni di detenzione inflittigli per un omicidio commesso nel piccolo villaggio da cui proviene. L’ex galeotto passa la prima notte di libertà in un pulcioso albergo di Atene ove incontra Strella, un transessuale che si prostituisce per arrotondare i guadagni di cantante in un club gay. I due s’innamorano e iniziano una nuova vita di coppia sino a che l’uomo scopre che la sua amante è in realtà il figlio che ha cambiato sesso. Turbamenti e violenze sino al lieto fine, nella notte di capodanno, con la coppia che si ricostituisce malgrado le convenzioni e i tabù sociali. La storia, così raccontata, potrebbe anche sembrare una sorta di manifesto contro le convenzioni in favore dell’amore libero da vincoli morali o legali, in realtà siamo in presenza di un melodramma più programmaticamente anticonformista che realmente trasgressivo, un testo e una storia in cui la voglia di scandalo prevale sulla capacità di raccontare un amore irregolare e dove la scelta di atmosfere prevalentemente cupe e notturne appare più esterna che realmente funzionale al discorso registico. Un altro testo teso più a sorprendere che non a instaurare un vero legame con lo spettatore intessendo un discorso scabroso ma possibile.
Segreti di famiglia
Segreti di famiglia
Abbiamo già accennato ai moltissimi titoli in programma, ci sia consentita qualche riga a proposito di Segreti di famiglia (Tetro), ultima fatica di Francis Ford Coppola. Anche in questo caso siamo in presenza di un corposo melodramma con agganci diretti al mondo della musica e dell’opera lirica. La scelta di campo comporta l’intero armamentario di scene madri, agnizioni, sovrabbondanza scenografica, recitazione sopra le righe. Il quasi diciottenne Benjamin capita, a Buenos Aires, in casa di suo fratello Tetro, che ha rotto da tempo ogni rapporto con la famiglia - in particolare con il padre Carlo direttore d’orchestra di grande fama – e vive facendo il tecnico delle luci in un teatrino locale. L'incontro tra i due è conflittuale: il fratello maggiore rifiuta ogni contatto – ricordo familiare, ha chiuso in una polverosa valigia il manoscritto di una sua opera cui ha lavorato durante un lungo ricovero in manicomio che ha scritto allo specchio alla maniera di Leonardo Da Vinci. Il più giovane dei due riesce ad attirare l’attenzione di una celebre critica letteraria presentando come suo un testo teatrale del fratello; la cosa farà esplodere i conflitti latenti e approderà a una curiosa agnizione. E’ questo il terzo lungometraggio che ha scritto e diretto dopo Non torno a casa stasera (The Rain People, 1969) e La conversazione (The Conversation, 1974). Vi s’intrecciano passioni personali – la musica, il melodramma e la tragedia greca – a lampi autobiografici legati alla complessità della famiglia allargata in cui il regista svolge una sorta di ruolo patriarcale. Non si dimentichi che suo padre era il compositore e musicista jazz Carmine Coppola (primo flauto dell'Orchestra Sinfonica della NBC), Talia Shire è sua sorella, suo fratello è il noto docente di letteratura August Coppola, sono suoi nipoti gli attori Nicolas Cage e Marc Coppola, il regista Christopher Coppola, i musicisti Robert e Jason Schwartzman, l'assistente ai costumi Stephani Schwartzman ed è nonno dell'attrice Gia Coppola. Il film, girato in uno splendido bianco e nero, ha la piacevole pesantezza, il comprensibile eccesso della recitazione e la maestosità della lunghezza, oltre due ore, tipici di questo genere di spettacolo con, in più, momenti di falsità creativa – tutta la parte sul Festival della Patagonia – davvero suggestivi.


Ajami
Ajami
I premi
Lungometraggi
Antigone d'or da città e regione di Montpellier con una dotazione di 15.000 €, offerti dalla regione e la città di Montpellier, un assegno di 30.000 € da utilizzare in messaggi pubblicitari per l’uscita del film offerti da CINECINEMA e da un bonus di 2.500 € da usarsi per sottotitolare il film offerti da Titra Film a:
Ajami, di Scandar Copti e Yaron Shani (Israele/Germania).
Premio della critica patrocinato dal Crédit coopératif con una dotazione di 2.000 € destinati alla regista del film a:
Retorno a Hansala (Ritorno a Hansala) di Chus Gutiérrez (Spagna).
Premio del pubblico patrocinato dal quotidiano Midi Libre con una dotazione di 4000 € a:
Fortapàsc di Marco Risi (Italia).
Premio JAM con una dotazione di 1.200 € offerta da JAM per la migliore musica a:
Tao Gutiérrez per la musica di Retorno a Hansala (Ritorno a Hansala) di Chus Gutiérrez (Spagna).
Premio del sostegno tecnico patrocinato dai laboratori Eclair con una dotazione di 5.500 € in servizi tecnici offerti dai laboratori Eclair a:
Alive ! (Vivo!) di Artan Minarolli (Francia/Albania).
Premio del pubblico giovane patrocinato dal CMCAS Languedoc con una dotazione di 2.000 € destinati al regista a:
Canine (Dente canino) di Yorgos Lanthimos (Grecia).
Cortometraggi
Gran premio di città e regione di Montpellier con una dotazione di 4.000 euro destinati alla regista a:
Um dia frio (Un giorno freddo) di Claudia Varejaõ (Portogallo).
Premio del pubblico Midi Libre - Kodak - Titra Film con una dotazione di 1.000 euro, 10 bobine da 122 metri di negativo vergine di 500 euro in prestazioni di sottotitolaggio a:
Annie de Francia (Annie di Francia) di Christophe Le Masne (Francia).
Premio del pubblico giovane della città di Montpellier con una dotazione di 2.000 euro destinati alla regista a:
Burtuqual (Aranci) di Maha Assal (Palestina).
Premio dell’associazione Beaumarchais con una dotazione di 1.500 euro destinati al regista e con aiuto complementare per la scrittura di un nuovo lungometraggio a:
Annie de Francia (Annie di Francia) di Christophe Le Masne (Francia).
Premio Cine Cinecourts CINECINEMA con l’impegno dell’acquisto per la messa in onda da parte di Cine Cinecourts a:
Diploma di Yaelle Kayam (Israele).

Premio Canal+ con l’impegno dell’acquisto per la messa in onda da parte di Canal+ a:
El nonca lo haría (Lui non lo farebbe mai) di Anartz Zuazua (Spagna.)

Concorso per il miglior trailer pubblicitario patrocinato dall’Atelier-concours Arte/Court-circuitWeb/Final Cut per la realizzazione di un trailer del film Ecuador de Estelle Journoud e Benoît Audé, scelto da Estelle Journoud a:
Les Ventilos stressés (Il rumore dei tifosi mi stressa) di Cyndie Malard.
Documentari
Premio Ulisse con una dotazione di 3.000 euro offerti dalla Mediateca Emile-Zola e dalla Mediateca Federico-Fellini di Montpellier a:
Acqua in bocca di Pascale Thirode (Francia).
Borse d’aiuto
Borsa di 7.000 euro concessi dal Centre National de la Cinématographie al progetto:
Paradis (Paradiso) de Shimon Shai, regista, e Noa Erenberg, co-sceneggiatore (Israele).
Borsa di 7.000 euro concessi dall’Organisation internationale de la francophonie al progetto:
Une famille libanaise (Una famiglia libanese) di Nadim Tabet, regista, e David Thion, produttore (Libano/Francia).
Borsa di 7.000 euro concessa dal Ministero degli Esteri al progetto:
Chroniques de la cour de récré (Cronache del parco giochi) di Brahim Fritah, regista (Marocco/Francia).
Borsa di 4.000 euro concessa dalla Région Languedoc-Roussillon al progetto:
Nu allongé (Nudi distesi) di Kaouther Ben Hania, regista, ed Eric Borg, co-sceneggiatore (Tunisia/Francia).
Borsa di 3.000 euro concessa dall’Association Beaumarchais e una dotazione di 3.000 metri di pellicola sviluppata o di 1.000 metri di pellicola negativa concesse da Kodak al progetto:
Les Deux vies d’Abderrhamane (Le due vite di Abderrhamane) di Philippe Faucon, regista, e Yasmina Nini Faucon, co-sceneggiatrice (Francia).
Soggiorno residenziale di scrittura offerto dal Centre des écritures cinématographiques Le Moulin d’Andé al progetto:
Le Remplaçant (Il sostituto) di Gilles Tarazi, regista (Libano).