7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest - Pagina 2

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7° Festival Internazionale del Cinema di Bucarest
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Ilich Ramírez Sánchez (1949) detto Carlos è un terrorista venezuelano, che si è autodefinito rivoluzionario professionista e che sta scontando una condanna all'ergastolo in Francia. La sua azione più clamorosa fu il sequestro dei membri dell'OPEC a Vienna, il 21 dicembre 1975. Carlos sequestrò sessanta ostaggi, fra ministri e plenipotenziari dei maggiori paesi produttori di petrolio, e ottenne un aereo austriaco per fuggire, prima, in Algeria, poi in Tunisia, quindi nuovamente ad Algeri ove liberò ostaggi e aereo in cambio di un sontuoso riscatto. L’operazione fu un insuccesso, dal punto di vista del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) che l’aveva organizzata soprattutto con il proposito di uccidere i plenipotenziari saudita e iracheno. Dalla figura di questo terrorista hanno tratto spunto vari registi fra cui Fred Zinneman, autore de Il giorno dello sciacallo (The Day of Jackal, 1973), ispirato al libro omonimo di Frederick Forsyth, pubblicato nel 1971, prima ancora che Carlos diventasse famoso. A lui si fa cenno anche in alcuni episodi della trilogia dedicata all’agente segreto Jason Bourne (The Bourne Identity, 2002, The Bourne Supremacy, 2004 e The Bourne ultimatum, 2007) tratta da romanzi di Robert Ludlum. È ora la volta del francese Olivier Assayas, che ha dedicato a questo personaggio una serie televisiva che dura ben cinque ore e mezzo, da cui è stata tratta una versione cinematografica di due ore e quarantacinque minuti. Il regista ha l’onestà di avvisare lo spettatore sin dall’inizio che molte sequenze ricostruiscono fatti storicamente documentati, mentre altre parti sono frutto di sue invenzioni. Il personaggio che emerge da questa lunga carrellata è di un criminale superato dai tempi, un relitto della guerra fredda e una pedina nel gioco delle potenze mediorientali e di quelle petrolifere. Un idealista sconfitto dalla storia e un assassino crudele, ma con venature romantiche come quella che mostra quando tenta di stringere la mano al pilota dell’aereo che ha scorrazzato per i cieli del Mediterraneo i sequestrati di Vienna. E’ un esempio di alta narrazione televisiva, nel senso che usa per il piccolo schermo alcuni fra i valori fondanti del cinema realizzando un prodotto che funziona assai bene in entrambi i campi.
Meek’s Cotoff dell’americana Kelly Reichardt è la classica opera da festival, nel senso che è una produzione ad altissima componente culturale e sperimentale, ma assai poco appetibile a quello che siamo soliti chiamare il mercato delle immagini. Siamo nell’Oregon, nel 1845, gli Stati Uniti, così come li conosciamo oggi, sono ancora poco più dell’embrione delle tredici colonie britanniche che hanno dichiarato la propria indipendenza il 4 luglio 1776. Buona parte del territorio è ancora controllata da britannici, francesi e messicani, mentre intere regioni sono territorio di caccia per i nativi pellerossa. In questo scenario s’inscrive la carovana di tre famiglie di coloni che, sotto la guida dello scout Stephen Meek, tentano di raggiungere le terre fertili dell’ovest. Ben presto si perdono, seguendo una scorciatoia consigliata dalla guida, e finiscono nelle zone desertiche degli altipiani. Quasi privi di cibo e acqua vanno avanti fra sospetti verso chi li conduce e tentazioni di tornare indietro. Decisivo sarà l’incontro con un indiano, dapprima visto dome nemico, poi assunto a vera, unica guida. E’ un percorso verso l’integrazione razziale, la caduta delle diffidenze preconcette che la regista descrive con toni quasi documentaristici, some se fra quei pionieri vi fosse stata veramente una macchina da presa che ne registrasse la vita di tutti i giorni. E’ un film che rovescia gli stereotipi, scenografici e di abbigliamento, di cui Hollywood ha ammantato la grande epopea western, restituendo allo spettatore la fatica, la miseria, il sudore e il sangue di cui si è nutrita. E’ un’opera forte e a suo modo magistrale, che commuove e affascina nonostante la voluta lentezza della narrazione e le misere condizioni di vita che rappresenta.
Svinalängorna (Oltre) segna l’esordio dietro la macchina da presa dell’attrice Pernilla August. La storia è un classico della cultura e del cinema nordici: la rabbia e i sensi di colpa in cui si dibattono i figli di genitori violenti e alcolizzati. Qui è il caso di Lena, una Noomi Rapace ben lontana dai manierismi della trilogia Millennium, a cui annunciano le gravissime condizioni della madre. E’ l’occasione per un percorso indietro nel tempo con ricordi d’infanzia punteggiati di botte, appartamenti sfasciati, vomito ed escrementi seminati per casa da un padre, d’origine finlandese, in perenne stato alcolico. Non manca la morte per overdose del fratellino e il progressivo degrado della genitrice, anch’essa indulgente con la bottiglia. E’ un film robusto, ben costruito, a tratti commuovente che conferma le profonde distanze fra la cultura protestante e quella mediterranea. Loro hanno solo lo psichiatra, i cattolici hanno anche e principalmente la confessione, una differenza di non poco conto.