Antalya Film Festival 2007 - Pagina 5

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Antalya Film Festival 2007
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Uovo
L’attesa è stata lunga, ma, alla fine, il buon film turco è arrivato. Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoğlu è un’opera che rientra appieno nel migliore filone moderno di questa cinematografia, quello che ha come autore di punta Nuri Bilge Ceylan. E’ un modo d’intendere lo stile filmico fatto più di silenzi che di parole, denso di lunghi piani sequenza, ricco d’introspezione psicologica, impreziosito da paesaggi suggestivi, attento ai personaggi veri. A questo proposito occorre fare una premessa. Il cinema turco sta riprendendo la strada del cosiddetto cinema di campagna, un vero e proprio genere che, da queste parti, ebbe vasta cittadinanza negli anni sessanta e settanta. Un filone frequentato da autori di grande prestigio come Lutfi Akad, il fondatore del nuovo cinema neorealista turco, e Yilmaz Güney. Era costruito su racconti che usavano i moduli tipici del cinema commerciale - il poliziesco, il western autarchico, il film di vendetta – per costruire storie dense di proposte sociali avanzate, denunce politiche, impeti rivoluzionari. Qualche cosa di molto simile al cinema di Damiano Damiani o, con particolarità stilistiche imparagonabili o, al limite, Francesco Rosi. Una delle caratteristiche di questa tendenza era che i suoi protagonisti - registi, attori e, frequentemente, attori / registi - erano intellettuali di città, o autori d’origine periferica (tipico il caso di Yilmaz Güney) che si assumevano il compito di portare il verbo, quasi sempre l’incitamento alla rivolta, presso gli umili, gli incolti o, nel migliore dei casi il vasto pubblico cittadino fruitore del cinema commerciale di tipo tradizionale. Oggi la situazione è profondamente diversa, sono intellettuali e artisti d’origine contadina o che nella campagna hanno mantenuto salde radici, a ritornare alla periferia e al paesaggio rurale. Lo fanno non per portarvi qualche cosa di urbano, ma per andare alla ricerca delle loro origini, vale a dire di quelle dell’intero paese. Da qui un forte rispetto per il realismo nella messa in scena, il ritratto fedele della piccole città, spesso sprofondate nel deserto dell’Anatolia, la precisione nella descrizione dei personaggi, la nostalgia malinconica verso i valori che rischiano di essere o già sono stati cancellati dalla modernizzazione forzata delle grandi città. E’ un processo che non esclude affatto la politica, ma vi arriva in modo indiretto e, proprio per questo, più forte e profondo. Non è un caso se quasi tutti i personaggi di questo cinema sono dominati dalla malinconia del vivere, dalla marginalità dell’esistenza, dal degrado morale.
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Distante
A questo proposito, si pensi Uzak (Distante, 2002) di Nuri Bilge Ceylan e al personaggio centrale del fotografo, in crisi per l’abbandono della moglie, che è riuscito ad inserirsi economicamente bene nella città e che caccia il cugino, ingenuo e ruspante, venuto a turbare il suo tram tran di colletto bianco scettico, ma ben amalgamato con il vivere moderno. Oppure, rimanendo ancora nel cinema di questo regista che è il vero caposcuola morale di questa corrente, al docente universitario maschilista, violento e disperato protagonista di Iklimler (Il piacere e l’amore, 2006). Lo scorso anno, nel quadro del Festival Internazionale del film di Salonicco è stata organizzata una mostra sul lavoro di questo autore come fotografo, professione in cui aveva ottenuto ottimi successi prima di approdare al cinema. Bastava osservare con attenzione le sue foto di paesaggi, quasi sempre colti durante le riprese dei film e nei mesi invernali (Theo Angelopoulos docet) per rendersi conto di quanto dolore, vera partecipazione e bellezza ci sia nel suo approccio alla campagna e all’immenso interno del paese.
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Poster mostra di Salonicco
Questi dati sfociano in una linea narrativa basata su personaggi vivi, dettagliati, definiti non dalla funzione sociale, che si muovono sempre nel mondo borghese e partecipano ad attività creative, quanto dalla profondità e complessità della costruzione psicologica. Ciò che conta è lo spirito profondo, non gli eventi. Con quest’ottica si dicono molte cose, anche limitandosi a narrare le incomprensioni fra due amanti, veri o possibili. E’ quanto capita ai protagonisti di quest’ultimo film, opera terza di un regista che, con Herkes kendi evinde (Lontano di casa, 2001) e Melegin düsüsü (L’angelo caduto, 2005), si è conquistato buona fama cinematografica, dopo essersene guadagnata una, solidissima, quale autore televisivo. L’opera apre una trilogia, i cui capitoli successivi s’intitoleranno, rispettivamente, Latte e Miele, e può essere riassunta in poche righe. Yusuf, libraio e poeta dilettante, ritorna controvoglia al villaggio natale per celebrare il funerale della madre. Nel piccolo paese incontra la ragazza che ha assistito la defunta per molti mesi. ImageE’ una donna modesta, timida, molto bella, che lo forza dolcemente a effettuare il sacrificio rituale che la morta voleva. Sempre più fievolmente l’uomo sostiene che deve ritornare ad Istanbul, ma, dopo una notte passata all’aperto – la sequenza è da antologia – bloccato da un enorme cane da pastore, si deciderà a rimanere. Non un bacio è stato scambiato fra i due, ma l’immagine finale che li vede fare colazione insieme ha molta più forza di qualsiasi dato esplicito. E’ un film molto bello in cui l’atmosfera conta assai più dei fatti e che ci offre, ancora una volta, uno sguardo ruvido e tenero su una terra fredda e inospitale, ma ricca di valori, simboli e radici culturali che, per fortuna, la modernità non è riuscita ad estirpare del tutto.