Antalya Film Festival 2007

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Antalya Film Festival 2007
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{ImageIl Festival del film di Antalya, stupenda cittadina balneare nel sud dell’Anatolia turca, ha tre facce. Alle classiche selezioni internazionale e nazionale, giunte entrambe alla 44ma edizione, da tre anni si sono affiancate una sezione, detta Eurasia, dedicata alle opere che possono funzionare da ponte fra i due continenti, e un mercato che, quantomeno nelle intenzioni, dovrebbe funzionare da terreno d’interscambio fra i circuiti commerciali dei paesi mediterranei e orientali. Molte buone intenzioni, ma grandi difficoltà di realizzazione, in una situazione in cui persino i grandi festival stentano a trovare molte opere di valore quindi scelgono di accaparrarsi tutto il possibile, restringendo ancor più il campo si ricerca delle rassegne meno forti, Lella sostanza una manifestazione come questa assume un valore particolare soprattutto per la possibilità che offre di visionare la più recente Il Festival del film di Antalya, stupenda cittadina balneare nel sud dell’Anatolia turca, ha tre facce. Alle classiche selezioni internazionale e nazionale, giunte entrambe alla 44ma edizione, da tre anni si sono affiancate una sezione, detta Eurasia, dedicata alle opere che possono funzionare da ponte fra i due continenti, e un mercato che, quantomeno nelle intenzioni, dovrebbe funzionare da terreno d’interscambio fra i circuiti commerciali dei paesi mediterranei e orientali. Molte buone intenzioni, ma grandi difficoltà di realizzazione, in una situazione in cui persino i grandi festival stentano a trovare molte opere di valore quindi scelgono di accaparrarsi tutto il possibile, restringendo ancor più il campo si ricerca delle rassegne meno forti, nella sostanza una manifestazione come questa assume un valore particolare soprattutto per la possibilità che offre di visionare la più recente produzione nazionale. Va detto subito che l’inizio non è stato particolarmente promettente.
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Beatitudine
Mutluluk (Beatitudine) di Abdullh Oğuz, noto distributore e produttore di spot e telefilm passato alla regia nel 2003 con Asmali konak: Hayat, mescola moltissimi generi. Inizia come il classico film di campagna con tanto di Aga, un figura a mezzo fra il proprietario terriero e il podestà di fascista memoria, fanciulle violentate e famiglie cadute nella vergogna che possono redimersi solo con la morte dell’oltraggiata. Tuttavia, dopo una manciata di sequenze, si trasforma in una storia d’amore, non meno prevedibile, fra carceriere e prigioniera, per finire come un film psicologico – sociale volto alla condanna dei costumi ancestrali e al trionfo della mentalità moderna. Tutto inizia con una ragazza trovata esanime e svestita sulla riva di un fiume. E’ ovvio che abbia subito il peggiore degli affronti, perciò la famiglia, secondo la tradizione, deve costringerla a suicidarsi o ucciderla. Poiché la giovane, per quanto trattata come un animale, non hs nessuna voglia di suicidarsi, il capo del villaggio, l’Aga, la affida al figlio affinché la porti ad Istanbul e là, nel caos della grande città, la faccia sparire. L'uomo è appena tornato dal servizio militare portandosi dietro gli incubi per le violenze cui ha partecipato nel corso della guerra contro i curdi per cui, al momento dovuto, non se la sente di ucciderla e scappa con lei inseguito dagli scherani del padre. I due fuggitivi si imbattono in un professore, in crisi matrimoniale, che veleggia fra la costa turca e le isole greche. Il colto ed elegante navigatore li prende a bordo della sua barca da sogno ed inizia ad insegnare loro le regole di una vita meno brutale. Ovvio che fra la coppia esploderà un amore appassionato, mente l’anziano riprenderà il mare ancor più saggio. Il film si muove su un tessuto che, più che al melodramma, guarda al fumetto, non dimenticando d’infarcire il racconto con spruzzate di socialità (la carneficina curda), modernità spicciola e, soprattutto, stupendi panorami destinati a promuovere il turismo verso la Turchia e, in seconda battuta, la Grecia, visto che si tratta di una coproduzione fra i due paesi. Stupisce che dietro a questa marmellata mal assortita s’intraveda la firma di Zülfü Livaneli, da un cui racconto il film è tratto, ottimo musicista e autore di film non trascurabili (Sis – La nebbia, 1993).
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Volti nascosti
Antichi, terribili costumi sono anche al centro di Sakli Yüzeler (Volti nascosti), opera terza della regista Hendan İpekçi. Il film intreccia tempi e ambienti in modo non sempre lineare. Si parte dalla Germania di oggi dove, nella vasta comunità turca, vive un gruppo familiare guidato da una donna autoritaria e rispettata che guarda con diffidenza ad un parente divenuto capo di una banda di criminali. Sarà proprio questo boss ad innescare la tragedia, quando scoprirà che la nipote, che credeva di aver ucciso perché colpevole di aver avuto un figlio senza essere sposata, è ancora viva. Per cancellare l’onta che, a suo dire, incrina la rispettabilità del clan decide di mettersi in caccia della sopravvissuta. Solo che dietro a tutta la vicenda c’è un documentarista che ha girato un film in cui è raccolta la testimonianza della sopravvissuta ed ora vuole proseguire il discorso girando il seguito della storia. L’intreccio narrativo non è chiarissimo e mescola verità e finzione, passato e presente per approdare ad un finale di tipico inseguimento poliziesco in cui i buoni tentano di arrivare prima dei cattivi a salvare la donzella. L’intento è lodevole si tratta di denunciare la vergognosa tradizione in favore dei delitti d’onore che in Turchia, come nell’Italia di quaranta anni or sono, infligge pene minime a chi uccide per vendicarsi di adulteri o offese morali. Una didascalia finale ci informa che le cose stanno cambiando e che nuove leggi sono state emanate per adeguare le pene alla gravità dei reati. L’operazione ricorda quella di cui è stato protagonista molto cinema degli anni cinquanta: utilizzare moduli narrativi codificati, in questo caso il poliziesco, per veicolare tesi socialmente rilevanti. Nel caso specifico un ostacolo alla piena riuscita dell’operazione è nella complessità della struttura prescelta, un groviglio di piani narrativi che in non pochi passi rendono difficile la comprensione del discorso. Come dire molta buona volontà per un risultato parziale.

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Promesse occidentali
Abbiamo detto che il cartellone del festival non conteneva novità assolute, questo è vero, ma ci sono vari titoli, passati in altre rassegne, che meritano ugualmente attenzione. In Eastern Promises (La promessa dell'assassino) David Cronenberg mette assieme sia la sua scelta, recente, di usare storie che si ispirano al cinema d’azione d’impronta criminale, sia la sua antica passione per le immagini truculente. Tale era la miscela alla base di A History of Vioelence (2005) e lo stesso avviene in quest’ultima sua fatica. Il discorso ruota attorno alla mafia russa trapiantata a Londra, qui, in una notte prenatalizia, una giovane, incinta e a piedi nudi, vaga chiedendo aiuto sino a stramazzare al suolo. Portata in ospedale, muore dopo aver dato alla luce una bimba. Un’infermiera trova, nella tasca del suo soprabito, un diario scritto in russo e lo porta a casa, sperando che il convivente di sua madre, un ex funzionario del KGB, sia in grado di rinvenirvi l’indirizzo dei parenti della morta. In realtà il libricino contiene una straziante testimonianza delle violenze subite dalla ragazza, che aveva solo 14 anni, quando è finita nel giro della malavita, ad opera del figlio di un boss locale. Questi, quando scopre l’esistenza del documento, vuole appropriarsene ad ogni costo. Inizia così una storia di trabocchetti, colpi di scena, duelli rusticani e approcci amorosi, il tutto condito da sequenze grandguignolesche la più innocua delle quali descrive l’amputazione delle dita ad un cadavere congelato. Gli effetti traumatici ci sono tutti e il racconto procede, quasi sempre, in modo imprevedibile così come non manca di abilità nel costruire scene e racconto, anche se alcuni passaggi appaiono non del tutto motivati. Ciò che latita, invece, e impedisce al film di diventare veramente importante, è il senso complessivo del discorso. Il modo come sono visti i russi, ad esempio, ha tratti che sfiorano il manierismo razziale, sul genere italiani uguale spaghetti e mandolini. Qui ci sono vodka a fiumi, ferocia di clan, propensione spregiudicata agli affari loschi. In poche parole un film più commercialmente accattivante che realmente ispirato.
Un cuore grande
Michael Winterbottom è un regista prolifico ed eclettico. Dal 1994 ha diretto ben 16 film, più di uno l’anno, spaziando fra vari generi, dal sociale (Butterfly Kiss, 1995) al film di guerra (Welcome to Sarajevo, 1997) alla sperimentazione (24 Hour Party People, 2002), la fantascienza (Code 46, 2003) il film politico (The Road to Guantanamo, 2006), ma conservando un preciso occhio documentaristico. E’ questa la migliore caratteristica anche di A Mighty Heart (Un cuore grande) in cui, partendo da un libro di Marianne Peral, racconta il calvario del marito dell’autrice, giornalista del Wall Street Journal rapito in Pakistan nel gennaio del 2002 e assassinato dopo settimane di detenzione. L’attentato delle Torri Gemelle non c’è ancora stato, ma i fondamentalisti islamici hanno già iniziato la guerra, anche se pochi se ne sono accorti. Il film mette la centro la figura della moglie del sequestro, una giovane d’origine cubana in attesa del primo figlio. Ne è interprete una straordinaria Angelina Jolie che, dimessi i panni della bellona combattiva, interpreta con misura lo strazio di una donna che perde il marito proprio mentre sta per metter al mondo un’altra vita. Lo stile è quello, nervoso e rapsodico del documentario e lo schermo alterna immagini delle trattative, riflessioni sui fatti, azioni di polizia. Il regista sembra non prendere partito, ci mostra vittime e carnefici con la stessa freddezza di sguardo, ma è proprio questa apparente neutralità a render ancor più straziante la storia.
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Va, invece, sull’autobiografico il regista cino – australiano Tony Ayres che dedica The Home Songs Stories (Storie di canzoni di casa) a sua madre, una cinese, cantante di nigth club a Shanghai, emigrata in Australia dopo aver sposato un ufficiale di marina. Il regista ci racconta una donna irrequieta e alla continua ricerca di un uomo che la ami veramente. In questo modo costruisce una complessa figura materna a mezzo fra la donna libera e il personaggio melanconico e sentimentalmente non realizzato. Il film è molto, a tratti troppo, personale e trascura quasi del tutto il quadro di contorno, gli anni sessanta, in favore di uno sguardo domestico introspettivo e personale.

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La nebbia e la notte
Riprendiamo il discorso sul cinema turco con S¡s ve gece (La nebbia e la notte), opera seconda di Turgut Yasalar. E’ il classico poliziesco venato di accenni sociali – il terrorismo, la guerra civile curda, i sequestri e le torture della polizia politica – che si conclude con il non meno prevedibile colpo di scena. Durante l’assalto all’appartamento in cui vivono alcuni ricercati (il film parla genericamente di terroristi, ma nel vocabolario dei media turchi questo termine ha una valenza assai larga) un funzionario di polizia spara a due fuggiaschi e ne ferisce uno. Pochi giorni dopo lo stesso poliziotto scopre che la sua giovane amante è scomparsa e inizia a cercarla affannosamente senza risultato. Dopo un bel po’ di avvenimenti, scoprirà, in modo del tutto casuale, che la figura contro cui ha sparato nella notte era proprio la donna che sta cercando e il cui cadavere è finito in un congelatore abbandonato nella cantina del palazzo in cui la ragazza abitava. Il film è ben costruito, anche se con qualche passaggio non proprio limpido, e ha il merito di spruzzare la storia di riferimenti a brucianti problemi d’attualità, ma, nella sostanza, ha solo l’obiettivo, in gran parte centrato, di costruire un prodotto professionalmente solido, destinato al consenso del grande pubblico. Nulla di male, in questo, non siamo certo alla presenza di quello che si suole definire cinema di qualità.
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La scomparsa di Deauville
Nella sezione della competizione internazionale è stato presentato il secondo lungometraggio diretto dall’attrice Sophie Marceau. S’intitola La disparue de Deauville (La scomparsa di Deauville) è ha il tono di uno di quei polizieschi in cui, più che lo sciogliemmo del mistero visto che si tratta di una soluzione intuibile dopo una decina di minuti, ciò che sta a cuore alla regista è un clima intellettuale e tenebroso che trova nei personaggi il principale punto d’appoggio. Qui, in particolare, tutto ruota attorno alla figura di un poliziotto in crisi che non riesce ad elaborare il lutto per la morte della sua compagna, anche se non rinuncia a fare il suo lavoro. Per avere un’idea della profondità delle scelte di regi basti dire che l’interprete di questo personaggio, il professionalmente da sempre modesto Christophe Lambert, non trova di meglio che strabuzzare gli occhi, girare vestito come un accattone reinterpretato da un qualche stilista, andare a letto senza togliersi gli abiti, riuscire a sfuggire, nelle situazioni più incredibili, ai colleghi che lo stanno inseguendo. La storia ruota attorno ad un maturo riccastro che finge il suicidio per prendere il largo con la bella di turno la quale, guarda caso, assomiglia come una goccia d’acqua ad una diva, morta 36 anni or sono, di cui l’imbroglione era un ammiratore fanatico. Ovvio che, alla fine, il malvagio paghi il fio dei suoi delitti, mentre il questurino e la donna, che si era accoppiata con il lestofante per compiere una sua personale vendetta, partono, ricchi e felici, verso un futuro radioso. E’un film pretenzioso, girato da un’autrice convinta che lo stile si conquisti con vorticosi giri di macchina, che il ritmo lo si ottenga con corse d’auto simili a quelle che popolano i telefilm americani e che agli attori basti essere presenti per dare vita ai personaggi.
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Il gioco del ragazzo povero
Meglio allora il modesto artigianato di cui da prova il canadese, d’origine giamaicana, Clement Virgo che disegna in Poor Boy’s Game (Il gioco del ragazzo povero) il difficile percorso verso la redenzione e la vita normale di un giovane di periferia, incappato in una dura condanna per aver causato un danno mentale irreparabile ad un coetaneo. Sarà la boxe, con le sue dure regole, ad aprirgli la strada verso il reinserimento sociale e il perdono dei genitori del giovane menomato. E’ un film semplice, senza alcuna pretesa stilistica avanzata, ma che ha il merito di dire bene le poche cose che si è prefisso di comunicare.

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Adamo e il diavolo
Riprendiamo il discorso sul cinema turco con Adem’in Trenleri (Adamo ed il diavolo) dello scrittore e sceneggiatore Bariş P¡rhasan. Questo regista ha una predilezione per i testi letterari e anche quest'ultima fatica ha il taglio di un racconto morale. Nei giorni in cui si apre il mese sacro del Ramadan, un nuovo Imam arriva in una piccola stazione ferroviaria dell’Anatolia. Il religioso, accompagnato da moglie e figlia, inizia a rimproverare i locali per i modo rilassato con cui vivono l’Islam e si dedica con particolare cura ai piccoli allievi della scuola coranica, tuonando contro i peccatori e gli infedeli. La sua bella moglie turba da subito il garzone della locanda annessa alla stazione, sembrerebbe una classica storia di corna, se non venissimo a sapere che il ragazzo è il padre della piccola che vive con il prete. Il giovane e la moglie dell’Imam hanno avuto una relazione, quando entrambi erano poco più che adolescenti, lei è rimasta incinta e lui l’ha abbandonata. E’ stato proprio l’uomo di chiesa ad accoglierla, quando era quasi una donna perduta, a sposarla e a prendere con se la piccola. L’ex amante vorrebbe che la donna ritornasse con lui lasciando il prete. Tuttavia, quando sembra proprio che ciò accada punto di accadere, lui fugge nuovamente e la donna scopre di quanta generosità è pieno il cuore del marito, che la riprende con sé. Inizieranno una nuova vita, questa volta come una coppia a pieno titolo, tanto che le ultime immagini che la mostrano vistosamente incinta. Tutta la vicenda è commentata, a mo’ di coro greco, dagli abitanti della stazioncina che prendono parte, consigliano, combinano appuntamenti, vigilano sulle esplosioni di follia. Il film è percorso da una lieve ironia, che lo salva dal cadere nel melodramma più vistoso. Interessante anche lo spirito libertario con cui arriva, quasi, a denunciare il fanatici religiosi, anche se il personaggio che ne esce con i maggiori meriti e positività è proprio l’Imam. In definitiva un film abbastanza solido, generoso nelle intenzioni, ma stilisticamente riuscito in misura solo parziale, tenuto conto della prevedibilità di molte scelte espressive.
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Il suonatore di tamburo
In concorso è stato presentato Jin. gwu (Il suonatore di tamburo), opera seconda del regista hongkonghese Kenneth Bi. Il film racconta una storia organizzata su due binari: da una pare c’è la solita vicenda di mafia cinese, dall’altra un inno alla possibilità di acquisire coscienza e serenità attraverso la disciplina Zen. Il giovane Sid, figlio di un capobanda di Hong Kong, ha la pessima idea di sedurre la moglie di una altro boss. Il marito tradito scopre gli amanti e giura vendetta: vuole che gli siano portate le mani mozzate del ragazzo. Il padre dell'imprudente Don Giovanni costringe il figlio a partire per Taiwan. Qui il ragazzo entra in contratto con una comunità di suonatori di tamburo Zen, decide di farne parte ed intraprendere il lungo percorso di autocoscienza che la disciplina impone. Ne uscirà completamente diverso, capace di affrontare le sue responsabilità e i problemi della vita. E’ una sorta di racconto morale, teso a dimostrare come, attraverso la meditazione e la riflessione si possa uscire anche dal peggior baratro morale. Stilisticamente l’opera appare divisa in due parti, complementari e contrapposte. Quando parla della malavita Hong Kong utilizza a piene mani gli stereotipi del cinema gangsteristico di genere, quando ambienta le sequenze fra i suonatori di tamburo assume un tono disteso, pacato e lirico. La miscela è tutt’altro che spiacevole e funziona bene da antidoto al non poco moralismo romantico che serpeggia nel film

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Uovo
L’attesa è stata lunga, ma, alla fine, il buon film turco è arrivato. Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoğlu è un’opera che rientra appieno nel migliore filone moderno di questa cinematografia, quello che ha come autore di punta Nuri Bilge Ceylan. E’ un modo d’intendere lo stile filmico fatto più di silenzi che di parole, denso di lunghi piani sequenza, ricco d’introspezione psicologica, impreziosito da paesaggi suggestivi, attento ai personaggi veri. A questo proposito occorre fare una premessa. Il cinema turco sta riprendendo la strada del cosiddetto cinema di campagna, un vero e proprio genere che, da queste parti, ebbe vasta cittadinanza negli anni sessanta e settanta. Un filone frequentato da autori di grande prestigio come Lutfi Akad, il fondatore del nuovo cinema neorealista turco, e Yilmaz Güney. Era costruito su racconti che usavano i moduli tipici del cinema commerciale - il poliziesco, il western autarchico, il film di vendetta – per costruire storie dense di proposte sociali avanzate, denunce politiche, impeti rivoluzionari. Qualche cosa di molto simile al cinema di Damiano Damiani o, con particolarità stilistiche imparagonabili o, al limite, Francesco Rosi. Una delle caratteristiche di questa tendenza era che i suoi protagonisti - registi, attori e, frequentemente, attori / registi - erano intellettuali di città, o autori d’origine periferica (tipico il caso di Yilmaz Güney) che si assumevano il compito di portare il verbo, quasi sempre l’incitamento alla rivolta, presso gli umili, gli incolti o, nel migliore dei casi il vasto pubblico cittadino fruitore del cinema commerciale di tipo tradizionale. Oggi la situazione è profondamente diversa, sono intellettuali e artisti d’origine contadina o che nella campagna hanno mantenuto salde radici, a ritornare alla periferia e al paesaggio rurale. Lo fanno non per portarvi qualche cosa di urbano, ma per andare alla ricerca delle loro origini, vale a dire di quelle dell’intero paese. Da qui un forte rispetto per il realismo nella messa in scena, il ritratto fedele della piccole città, spesso sprofondate nel deserto dell’Anatolia, la precisione nella descrizione dei personaggi, la nostalgia malinconica verso i valori che rischiano di essere o già sono stati cancellati dalla modernizzazione forzata delle grandi città. E’ un processo che non esclude affatto la politica, ma vi arriva in modo indiretto e, proprio per questo, più forte e profondo. Non è un caso se quasi tutti i personaggi di questo cinema sono dominati dalla malinconia del vivere, dalla marginalità dell’esistenza, dal degrado morale.
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Distante
A questo proposito, si pensi Uzak (Distante, 2002) di Nuri Bilge Ceylan e al personaggio centrale del fotografo, in crisi per l’abbandono della moglie, che è riuscito ad inserirsi economicamente bene nella città e che caccia il cugino, ingenuo e ruspante, venuto a turbare il suo tram tran di colletto bianco scettico, ma ben amalgamato con il vivere moderno. Oppure, rimanendo ancora nel cinema di questo regista che è il vero caposcuola morale di questa corrente, al docente universitario maschilista, violento e disperato protagonista di Iklimler (Il piacere e l’amore, 2006). Lo scorso anno, nel quadro del Festival Internazionale del film di Salonicco è stata organizzata una mostra sul lavoro di questo autore come fotografo, professione in cui aveva ottenuto ottimi successi prima di approdare al cinema. Bastava osservare con attenzione le sue foto di paesaggi, quasi sempre colti durante le riprese dei film e nei mesi invernali (Theo Angelopoulos docet) per rendersi conto di quanto dolore, vera partecipazione e bellezza ci sia nel suo approccio alla campagna e all’immenso interno del paese.
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Poster mostra di Salonicco
Questi dati sfociano in una linea narrativa basata su personaggi vivi, dettagliati, definiti non dalla funzione sociale, che si muovono sempre nel mondo borghese e partecipano ad attività creative, quanto dalla profondità e complessità della costruzione psicologica. Ciò che conta è lo spirito profondo, non gli eventi. Con quest’ottica si dicono molte cose, anche limitandosi a narrare le incomprensioni fra due amanti, veri o possibili. E’ quanto capita ai protagonisti di quest’ultimo film, opera terza di un regista che, con Herkes kendi evinde (Lontano di casa, 2001) e Melegin düsüsü (L’angelo caduto, 2005), si è conquistato buona fama cinematografica, dopo essersene guadagnata una, solidissima, quale autore televisivo. L’opera apre una trilogia, i cui capitoli successivi s’intitoleranno, rispettivamente, Latte e Miele, e può essere riassunta in poche righe. Yusuf, libraio e poeta dilettante, ritorna controvoglia al villaggio natale per celebrare il funerale della madre. Nel piccolo paese incontra la ragazza che ha assistito la defunta per molti mesi. ImageE’ una donna modesta, timida, molto bella, che lo forza dolcemente a effettuare il sacrificio rituale che la morta voleva. Sempre più fievolmente l’uomo sostiene che deve ritornare ad Istanbul, ma, dopo una notte passata all’aperto – la sequenza è da antologia – bloccato da un enorme cane da pastore, si deciderà a rimanere. Non un bacio è stato scambiato fra i due, ma l’immagine finale che li vede fare colazione insieme ha molta più forza di qualsiasi dato esplicito. E’ un film molto bello in cui l’atmosfera conta assai più dei fatti e che ci offre, ancora una volta, uno sguardo ruvido e tenero su una terra fredda e inospitale, ma ricca di valori, simboli e radici culturali che, per fortuna, la modernità non è riuscita ad estirpare del tutto.

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I PREMI
Sezione nazionale

Miglior film: Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Miglior regista: Fatih Akin per YASAMİN KİYİSİNDA (Il limite del paradiso)
Miglior attore: Murat Han interprete di MUTLULUK (Beatitudine) di Abdullah Oğuz
Miglior attrice: Ozgu Namal interprete di MUTLULUK (Beatitudine) di Abdullah Oğuz
Miglior attore non protagonista: Tuncel Kurtiz interprete di YASAMİN KİYİSİNDA (Ai confini del Paradiso) di Fatih Akin
Miglior attrice non protagonista: Nursel Kose interprete di YASAMİN KİYİSİNDA ((Ai confini del Paradiso) di Fatih Akin
Migliore sceneggiatura: Orcun Koksal per Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Migliore fotografia: Özgür Eken per Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Miglior montaggio: Andrew Bird per YASAMİN KİYİSİNDA (Ai confini del Paradiso) di Fatih Akin
Miglior direzione artistica: Naz Erayda per Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Migliore musica: Zulfu Livaneli per MUTLULUK (Beatitudine) di Abdullah Oğuz
Miglior sonoro: Orcun Korluca per MUTLULUK (Beatitudine) di Abdullah Oğuz
Migliori effetti speciali: non assegnato
Migliori costumi: Naz Erayda per Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Miglior trucco e pettinatura: Songül Ebrahim e Suzan Kardeş per Sis ve Gece (Nebbia e la notte) di Turgut Yasalar
Migliore lavoro di laboratorio: Safak Studios per Sis ve Gece (Nebbia e la notte) di Turgut Yasalar
Premio Digiturk Behlül Dal per il migliore esordio all’attrice Saadet Isil Aksoy interprete di Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu
Speciale riconoscimento Avni Tolunay Yurici Kargo: YASAMİN KİYİSİNDA (Ai confini del Paradiso) di Fatih Akin

Sezione internazionale
Miglior film: Bikur Ha-tizmoret (La visita della banda) di Eran Kolirin
Miglior regista: Abdellatatif Kechiche per La Graine et le Mulet (la semola e il muggine)
Premio della critica: Sous les Bombes (Sotto le bombe) di Philippe Aractingi
Premio Netpac: ex-aequo Yumurta (Uovo) di Semih Kaplanoglu e Sous les Bombes (Sotto le bombe) di Philippe Aractingi