Sguardo sul cinema rumeno

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Sguardo sul cinema rumeno
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La prima affermazione del nuovo cinema rumeno è avvenuta in un momento ben preciso. Nel maggio 2007 il Festival del Cinema di Cannes, sessantesima edizione, mette in cartellone 4 luni, 3 saptamini, 2 zile (4 mesi, 3 settimane e 2 giorni) di Cristian Mungiu. Il film conquista subito il consenso della critica e, a fine manifestazione, anche quello della giuria che gli assegnerà la Palma d’Oro. E’ uno di quei testi in cui la storia conta poco e si può rinchiudere in poche parole: una giovane donna deve abortire e chiede a una sua amica di assisterla. L’intervento è fatto in una camera d’albergo e va a buon fine nonostante un susseguirsi d’incidenti e difficoltà. Nessun evento straordinario, ma una piccola tragedia in un paese in cui - nel 1987, anno in cui la storia è ambientata - l'interruzione clandestina di gravidanza è considerata un reato grave punito severamente.

Alla caduta del regime, due anni dopo, si calcolò che quando l’aborto era vietato per legge, con l’intento di avere a disposizione una mano d’opera abbondante, ogni anno più di un milione di donne vi aveva fatto ricorso clandestinamente. E’ un dato importante, ma è ancora un’informazione sociologica, ben più efficace è la descrizione, mirabile nel film, dei rapporti che s’instaurano fra le due donne, il fidanzato di una di loro, il sanitario che pratica l’interruzione di gravidanza pretendendo, in cambio, che entrambe gli si concedano prima di realizzare l’intervento operazione. E’ un quadro variegato e cesellato da cui emergono un panorama sociale e umano disperato, contornato da uno scenario dominato da miseria, abbandono, disgregazione. E’ questa l’opera seconda di un regista che aveva esordito cinque anni prima con Occident e che diventerà una figura di punta di questa cinematografia sia come autore e, soprattutto, come produttore. Due anni dopo questa vittoria ritornerà sulla Croisette con un’altra opera a più voci di grande forza di cui è il produttore e l’anima essenziale. Amintiri din epoca de aur (Racconti nell'età dell'oro) raccoglie cinque storie - firmate da Hanno Höfer, Razvan Marculescu, Cristian Mungiu, Costantin Popescu, Iona Uricaru - dedicate ad altrettante leggende metropolitane in vigore all'epoca di Nicolae Ceauşescu (1918 - 1989). Si passa dai pasticci innescati dall'annuncio della classica visita del dittatore a un villaggio di campagna, ai traffici cui sono costretti, vera economia del baratto, i comuni mortali, alle assurdità imposte da funzionari più papisti del papa, alla pratica dello sport nazionale: imbrogliare lo Stato e gli altri cittadini. Come sempre capita in produzioni di questo tipo, non tutte le parti hanno un'identica forza, ma due s’impongono sulle altre: l'esplosione in un appartamento i cui inquilini hanno tentato di macellare un maiale in casa e la piccola truffa ordita da due ragazzi per guadagnare qualche lei facendosi passare per funzionari pubblici che chiedono agli abitanti di un casermone bottiglie con un campione di acqua potabile. In realtà il loro scopo è raccogliere bottiglie per poi rivenderle. Il film è percorso da un'ironica intelligenza che invita a fare i conti con un passato terribile e questo senza eccessi retorici e con la convinzione che il sorriso è l'arma migliore per liquidare gli sciocchi e i violenti. Qui troviamo due delle principali caratteristiche di questo cineasta, dati che segnano anche gran parte della cinematografia rumena: il richiamo al realismo e l’uso di un’ironia costantemente intrisa di malinconia e disperazione. Volendo fare un paragone, sicuramente forzato verrebbe da citare lo spirito che permea gran parte della cultura della vecchia Cecoslovacchia. A questo proposito si potrebbero citare sia Il buon soldato Sc'vèik (1912) di Jaroslav Hašek (1883-1923), sia quella parte della nová vlna che ha come principale esponente Jiří Menzel (1938). Il cinema di Cristian Mungiu e dei cineasti che gli sono vicini partecipa di uno spirito molto simile a questo.

A questo tipo di approccio se ne affianca un altro, dominato da elementi tragici, un tipo di cinema che aveva attirato l’attenzione di molti critici ancor prima del successo del titolo cui abbiamo appena parlato. Una di queste opere è Moartea domnului Lazarescu (La morte del signor Lazarescu, 2005) opera seconda di Cristi Puiu che aveva esordito nel 2001 con Marfa si banii (Beni e denaro, 2001). Quest’ultimo film registra, con taglio apparentemente documentario, la morte di un anziano pensionato, col debole della bottiglia. Il vecchio si sente male un sabato sera e, fra diagnosi sbagliate, vicini impiccioni e incompetenti, soccorsi in ritardo, spira qualche ora dopo. È una cronaca apparentemente banale, in realtà ricca di notazioni e dure accuse alla disgregazione morale e materiale di una società passata da una feroce dittatura a un liberalismo selvaggio. La macchina da presa segue con lievità e discrezione il calvario del vecchio e lo fa sino a quasi rendersi impercettibile, lasciando spazio alla tragedia quotidiana che si consuma sotto i nostri occhi. Ci mostra il malato, imperterrito ribante per solitudine e abbandono, che scende, passo dopo passo, nell’inferno della sanità incompetente o impotente. Dopo quest’opera, veramente di grande rilievo, il regista firma una coproduzione multinazionale, Offset (2006), alla cui realizzazione contribuiscono Francia, Romania, Germania, e Svizzera. E’ la storia di un triangolo amoroso che tende a una riflessione sull’Europa e, in particolare, sui rapporti fra Germania e paesi ex – socialisti.

Quattro anni dopo, nel 2010, arriverà quella che, sino ad ora, è l'opera più importante firmata da questo cineasta: Aurora, ove il regista s’impegna anche nel ruolo di’interprete principale. Come i precedenti anche questo film ha un andamento lento, attento ai piccoli gesti del quotidiano, ai lunghi silenzi interrotti da atti di grande violenza, mai mostrati in modo compiaciuto. La storia è quella dei due giorni nella vita di un ingegnere siderurgico turbato dal divorzio con la moglie, rancoroso verso i suoceri e il notaio che ha indotto la donna a lasciarlo. Meditabondo, cupo, solitario attraversa le ore con gesti che sembrano insensati, ma che hanno fini precisi: l’uccisione dei suoi nemici. Compirà la strage e si consegnerà alla polizia, quasi adempiendo un rituale burocratico, lo stesso che lo accoglie fra le mura del commissariato. Indifferenza, malessere esistenziale, difficoltà di rapporto con gli altri, tutto questo rimpolpa un film di grande forza che chiede allo spettatore la pazienza necessaria a seguirne i tempi narrativi consegnando, alla fine, un ritratto disperato e impietoso in cui brillano persino alcuni frammenti d’ironia. E’ qui che possiamo cogliere i tratti fondamentali di un modo di fare cinema che si muove in sintonia con le più moderne tendenze dell’espressione filmica, facendo coincidere il tempo della narrazione con quello della vita e dando a questa scelta il valore di un richiamo all’osservazione attenta, al rifiuto della superficialità e della corsa che segnano il cinema e la vita moderna.