25° Torino Film Festival 2007

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25° Torino Film Festival 2007
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25° Torino Film Festival
La venticinquesima edizione del Torino Film Festival, prima della direzione di Nanni Moretti, è stata segnata da un grande successo mediatico e di pubblico, dalla sostanziale conferma delle linee di tendenza nella scelta delle opere e da una qualità media, tendente al medio – basso, dei film presentati. Andiamo con ordine. Le sale erano piene come non mai, con code agli ingressi che hanno sorpreso gli stessi organizzatori, causando vari problemi gestionali. Con una certa frequenza molti spettatori sono stati lasciati fuori, con mugugni diffusi, soprattutto da parte di chi aveva preacquistato un abbonamento. La ragione di tanta attenzione è da ricercarsi, paradossalmente, in una contraddizione messa in opera dallo stesso direttore. Se le sue capacità a destreggiarsi fra i media non costituiscono certo una novità – si pensi al silenzio che pretende attorno ai film che sta girando, una mancanza di notizie che finisce col costituire un’assordante evento – appare singolare l’operazione avviata in questa prima edizione puntando massicciamente sul rilievo mediatico – si è arrivati persino a ringraziare i giornalisti! – focalizzando più gli incontri con i registi ospiti che non la qualità delle opere in cartellone.
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Nanni Moretti
Nanni Moretti non è mai stato tenero con il chiacchiericcio di televisioni e giornali reclamando, giustamente, un’attenzione più documentata e informata. A Torino, nolente o volente, ha messo in moto una macchina che ne ha fatto, lui consenziente, il protagonista di un evento e non un direttore che impegna il suo prestigio, la sua cultura e le sue idee per proporre un preciso tipo di cinema. La prova si può trovare nelle pagine spettacoli di molti giornali che hanno dedicato molte colonne al personaggio Nanni Moretti e ai suoi ospiti, ma hanno mostrato una straordinaria avarizia di spazio, superiore persino a quella degli anni precedenti, quando si è trattato di parlare dei film in cartellone. In questo modo Il Festival è stato usato da televisioni e giornali come un qualsiasi evento da gonfiare oggi e abbandonare domani. Questa contraddizione, fra teoria passata e pratica odierna, ha avuto un punto di particolare evidenza nel livello medio del cartellone, retrospettive a parte, che ha seguito in gran parte le linee del passato scontrandosi dolorosamente con la crisi che segna il panorama cinematografico mondiale. Questo soprattutto in direzione di quelle cinematografie che, in passato, avevano fornito materiali abbondanti come l’iraniana e, parzialmente, la cinese e l’argentina. Un vuoto che non può essere riempito solo dai pochi fiori che nascono a Bucarest, Istanbul o Sofia. In questo quadro i selezionatori, fatto salvo il peso di scelte estetiche personali in favore del cinema melodrammatico o a tinte piuttosto forti, sono stati costretti a rivolgersi o ad opere di buona qualità commerciale o a testi che navigano in quello che si suol definire, in senso lato, il cinema indipendente. Da notare, la cosa è diretta conseguenza della scarsità cui abbiamo accennato più sopra, che molti fra i titoli in cartellone erano già passati ad altre rassegne. Questo non deve meravigliare più di tanto per un duplice ordine di motivi. In primo luogo i festival costituiscono da tempo un vero e proprio circuito non privo di valenza commerciali, inoltre si sono esaurite, non da oggi, le possibilità per una manifestazione - che non sia Cannes, Berlino o Venezia – di pretendere l’anteprima, internazionale o continentale, dei titoli che mette in cartellone. In conclusione possiamo dire che l’operazione varata dagli enti locali, in accordo con alcuni fra i fondatori del Torino Film Festival, può dirsi pienamente riuscita sul versante della riconquista di una vasta platea cittadina e nell’ottenimento di un’ampia eco mediatica. Assai meno positivo appare, invece, il rinnovamento culturale della manifestazione che, quanto meno per questa edizione, si è collocata sui binari di sempre, forse con un tantino di smalto in meno rispetto al passato.


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Lontano da lei
Veniamo ora ad alcuni titoli in cartellone, iniziando dalla sezione concorso. Away from Her (Lontano da lei) di Sarah Polley ha al centro una coppia matura, i due sono sposati da oltre cinquant’anni e vivono ritirati in campagna. godendo di una moderata agiatezza. Un quadro idilliaco sconvolto dalla scoperta che lei è stata colpita dal morbo di Alzheimer e, lentamente, perde il ricordo del passato. Ricoverata in una casa di cura incontrerà un ex – dirigente d’azienda colpito dal medesimo male. Se ne innamorerà scambiandolo per il marito, che non riconosce più. Nello stesso tempo quest’ultimo intreccia un rapporto con la moglie dell’ammalato. Due coppie si disfano, complice la malattia, e altre due si formano. Potremmo definire il film un melodramma a lieto fine o la classica tragedia familiare intrisa di sentimentalismo e imperniata sulle performance degli attori, un quartetto di interpreti - Julie Christie, Michael Murphy, Olympia Dukakis, Michael Murphy – che mettono a frutto una professionalità di lunga data. Un film di medio – buona qualità commerciale, piuttosto vecchiotto nello stile.
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La ferrovia

E’ un giudizio che si può applicare, quasi per intero, anche a Gyeong-Ui-Seon (La ferrovia) opera seconda del sud coreano Park Heung-Sik anche se, in questo caso, i riferimenti alla situazione politica del paese hanno un peso rilevante. Il film nasce dall’intreccio di due storie, la prima ha al centro un macchinista della metropolitana di Seoul e lavora duramente sognando una storia d’amore con una donna misteriosa, che gli regala libri e generi alimentari, la seconda ruota attorno ad una bella assistente universitaria di letteratura tedesca, amante del professore che guida il suo dipartimento. Le vicende s’incrociano, quando, complice una tempesta di neve, i due sono costretti a passare una notte nella stessa stanza d’albergo. E’ l’occasione per confessioni di incubi (la donna misteriosa si è uccisa gettandosi sotto il convoglio guidato proprio dall’uomo cui regalava libri) e fallimenti (la moglie del professore ha scoperto l’adulterio e il docente è ritornato rapidamente in famiglia). Sembrerebbe un banale assemblaggio di storie d’amore se la regia non disseminasse il racconto di segnali che rimandano alla separazione fra le due Coree (il crollo del muro di Berlino), alle differenze di classe (lei benestante, lui proletario) e alle inquietudini di un paese che non riesce ancora a trovare una propria identità (il lavoro massacrante da una parte, gli studi elitari, dall’altra). La costruzione stilistica è solida, lo sviluppo del racconto fluido, l’interpretazione adeguata alla complessità delle vicende. Ciò che manca è uno sguardo linguistico originale.
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Storie di canzoni di casa

Va, invece, sull’autobiografico il cino – australiano Tony Ayres che dedica The Home Songs Stories (Storie di canzoni di casa) a sua madre, una cinese, cantante di night club a Shanghai, emigrata in Australia dopo aver sposato un ufficiale di marina. Il regista traccia, ambientato negli anni settanta, il ritratto di una donna irrequieta e alla continua ricerca di un uomo che la ami veramente. In questo modo costruisce una complessa figura materna a mezzo fra la donna libera e il personaggio melanconico e sentimentalmente non realizzato. Il film è molto, a tratti troppo, personale e trascura quasi del tutto il quadro di contorno, gli anni sessanta, in favore di uno sguardo domestico introspettivo e personale.
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L'arte del pensiero negativo

Kunsten å tenke negativt (L’arte del pensiero negativo) è il film d’esordio del giovane regista norvegese Bård Breien, un autore la cui verve pencola verso la commedia nera. In questo caso il lacerante dramma di tre persone costrette in carrozzella, due delle quali affidate ad una psicoterapeuta convinta che tutte le difficoltà possano essere superate con l’ottimismo e il pensiero positivo. Quando il gruppo incontra un trentacinquenne, handicappato a seguito di un incidente d’auto, che riesce a sopravvivere solo facendo ricorso ad una rabbia profonda e inarrestabile, le cose precipitano, sin quasi a sfiorare nuove tragedie. In altre parole siamo davanti ad uno sberleffo che mira a far emergere il grottesco anche dalle situazioni più tragiche. L’invito di fondo è all’accettazione della realtà, indipendentemente da qualsiasi mascheramento ottimistico; meglio la consapevolezza di ciò che si è alla falsa coscienza indotta da qualsiasi forma di autoconsolazione. Sicuramente l’intento è lodevole, anche se il film eccede in una verbosità falsamente irriverente che ne compromette parte delle possibilità di riuscita.

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Neandertal
Neandertal del tedesco Jan-Christoph Glaser ha al centro un ragazzo che soffre di una neurodermatite che lo costringe a vivere nell’ombra e a sfuggire ai rapporti con le ragazze. Dopo un ricovero in ospedale, causa un aggravamento della malattia, scopre che la sua famiglia si basa sulla menzogna visto che il padre è l’amante della migliore amica della moglie. Disgustato va a vivere in una sorta di comune ove incontra un personaggio strambo che riesce a guarirlo facendogli mangiare cibi misteriosi. Purtroppo il nuovo amico non è così forte e sicuro di se quanto vorrebbe far credere e finisce col suicidarsi. Il film traccia il difficile percorso verso la piena consapevolezza di un giovane diciassettenne in una piccola cittadina di provincia e lo fa con precisione di dettagli psicologici, ma anche con un certa ripetitività e prevedibilità di situazioni. Un’opera onesta, ma di non grande interesse.
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Volo libero
Vogelfrei (Volo libero) è un film lettone scritto e diretto da quattro registi - Janis Kalejs (infanzia), Gatis Smits (giovinezza), Janis Putnins (maturità), Anna Viduleja (vecchiaia) - che hanno firmato altrettanti episodi collegando le età dell’uomo al ritmo delle stagioni. E’ la storia immaginaria della stessa persona di cui i registi rappresentano i vari momenti della vita. In questo modo lo seguiamo, quando, ancora bambino, scopre le prime emozioni giocando con i coetanei in un bosco, lo vediamo, giovane vigoroso, imporsi come giocatore di hockey su ghiaccio, diventare timido uomo d’affari e, infine, raggiungere la vecchiaia ritornando a foreste e animali selvatici. E’ una sorta di mosaico con tessere non tutte di uguale livello; l’ultima, ad esempio, è largamente la migliore delle altre. Un esperimento interessante, ma che non va oltre il college di mediometraggi stilisticamente non del tutto compatibili.
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L'elefante e il mare
The Elephant and the Sea (L'elefante e il mare) del malese Woo Ming Jin racconta due storie distinte che percorrono, contemporaneamente, ma senza incrociarsi, il panorama di un villaggio povero e inquinato. Un giovane sopravvive facendo piccoli lavori, il principale dei quali è il cambio delle gomme alle auto cui ha procurato forature nei pneumatici. Un maturo pescatore ritorna a casa dopo quattro giorni e scopre che, nel frattempo, sua moglie è morta di un morbo misterioso e la sua casa è stata posta sotto quarantena. Sono due solitudini, quella del ragazzo che non riesce a trovare una qualsiasi collocazione e quella dell’uomo gettato nella disperazione dalla perdita di ogni legame. Il film, girato in elettronico, è cadenzato da lunghi silenzi, scarsità di fatti, nel senso tradizionale del termine, grande ricchezza di sensazioni e notazioni ficcanti. Non a caso molti lo hanno paragonato al cinema di un altro grande regista malese: Tsai Ming Liang cui lo collega l’indifferenza del paesaggio, i tempi sospesi del racconto, la preferenza alla immagini rispetto alle parole. Non un film memorabile, ma una delle opere più interessanti ospitate dal concorso di quest’anno.
Assai meno valido La Naissance des Pieuvres (La nascita delle piovre) della francese Céline Sciamma che ci infligge l’ennesima radiografia dell’adolescenza femminile, con tanto di pulsioni lesbiche, curiosità sessuali, pruriti vari. Protagoniste tre ragazze che ruotano attorno ad una scuola di nuoto sincronizzato e che si contendono i maschi più appetitosi non rinunciando a qualche incursione nell’amore omosessuale. Un film banale al limite dell’insopportabile.

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Brick Line
Fuori della sezione competitiva sono stati proposti moltissimi titoli, vogliamo ricordarne tre. Brick Lane (Brick Lane) segna l’esordio nel lungometraggio di Sarah Gavron, inglese d’origine del Bangladesh. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Monica Ali e racconta la vita di una giovane costretta ad abbandonare il villaggio natale per andare sposa ad un maturo e corpulento impiegato che abita nella zona di Borough nell’ East End di Londra, che si reputa persona colta e sottostimata dai suoi superiori. La donna ha due figlie, una delle quali si ribella alla vita in cui è costretta all’insegna del rispetto delle tradizioni del paese d’origine. Da parte sua, lei sogna di rivedere la sorella che ha lasciato in patria e che, dalle notizie che le arrivano, è diventata una sorta di prostituta. Gli attentati dell’11 settembre 2001 scatenano forti tensioni anti-islamiche e spingo molti giovani d’origine asiatica ad avvicinarsi ai movimenti estremisti. In questo clima il marito della donna decide di ritornare in patria, ma la moglie e le figlie rifiutano di seguirlo. Il film disegna un quadro preciso e pregevole di una comunità d’immigrati, con i suoi dolori e le sue miserie, così come schizza con precisione il ritratto di questi esseri umani che vivono in una megalopoli, ma non hanno mai messo il naso oltre la strada in cui abitano. La seconda parte, quella più politicizzata, ha toni abbastanza prevedibili, ma che non incrinano il bilancio di un film robusto e interessante.
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I frammenti di Tracey
Il regista canadese Bruce McDonald ha tratto The Tracey Fragments (I frammenti di Tracey) dall’omonimo romanzo della commediografa Maureen Medved. Il film è cadenzato dai ricordi di una quindicenne alla ricerca disperata del fratellino, che aveva in custodia e ha perso di vista per appartarsi con un mascalzone che, una volta consumato, la scarica a pedate dall’auto. La struttura frammentata del racconto à resa dal regista suddividendo lo schermo in varie parti in cui, spesso, compare la medesima situazione inquadrata da punti di vista diversi. Un racconto da ricomporre rimettendone assieme le varie parti o andando a vedere il sito ufficiale del regista in cui la vicenda è presentata in forma lineare. Difficile dire se si tratta di una trovata stilisticamente non nuova, ma molto funzionale al tipo di racconto o se, invece, sia solo una piccola astuzia per incuriosire spettatori e critici. Sicuramente l’insistenza dell’uso di immagini frammentate finisce per far perdere forza all’esperimento e farlo pencolare più in direzione della cosa furba, che non della necessità stilistica.
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Lascia perdere Johnny!
Qualche osservazione finale su Lascia perdere Johnny! Che segna l’esordio, nel lungometraggio, dell’attore e regista Fabrizio Bentivoglio. Il film è ambientato a Caserta nel 1976 e racconta, con tono bonario e non pochi spunti comici, gli esordi di Fausto, un giovane con la passione della musica che suona in una sgangherata orchestrina. Tutto cambia con l’arrivo di un noto musicista, ora alla fine della carriera, che infiamma gli animi e lo convince a trasferirsi a Milano. Il film nasce dai molti racconti autobiografici ascoltati dal regista durante le cene cui ha partecipato assieme ai componenti del gruppo Avion Travel. Nonostante questa origine, il film ha il tono di una favola d’iniziazione al lavoro creativo, un peana sulla forza della passione per la musica, condito da qualche battuta ironica e punteggiato di figure da commedia paesana. La stessa struttura del racconto non si scosta dalle molte altre che ci hanno narrato i difficili inizi di un qualche artista. Non ci si deve meravigliare, dunque, della mancanza di qualsiasi riferimento ai molti fatti che hanno segnato l’anno in cui la vicenda è ambientata o della scelta della regia di collocare l’intera storia in clima socialmente sterile. Se a questo si aggiungono la sovrabbondanza di primi e primissimi pani, si rafforza il sospetto della solita operazione con obiettivi più televisivi che cinematografici.

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Garage
I PREMI
• Miglior film (euro 25.000) a:
GARAGE di Lenny Abrahamson (Irlanda).
• Premio speciale della Giuria (euro 10.000) a:
THE ELEPHANT AND THE SEA (L'elefante e il mare) di Woo Ming Jin (Malesia-Olanda)
• Premio per la miglior attrice a:
JOAN CHEN per il film THE HOME SONG STORIES (Storie di canzoni di casa) di Tony Ayres (Australia).
• Premio per il miglior attore a:
KIM KANG-WOO per il film GYEONGUI SEON (La ferrovia) di Park Heung-sik (Corea del
Sud).
Documentari
• Miglior documentario italiano (euro 10.000) a:
LA NACIÓN MAPUCE (La nazione Mapuce) di Fausta Quattrini (Svizzera/Italia/Argentina)
• Premio speciale della Giuria (euro 5.000) a:
L’ESAME DI XHODI di Gianluca e Massimiliano De Serio (Italia)
• Menzione speciale a:
BIÙTIFUL CAUNTRI di Esmeralda Calabria, Giuseppe Ruggiero e Andrea D’Ambrosio (Italia).
Cortometraggi
• Miglior cortometraggio italiano (euro 10.000) a:
GIGANTI di Fabio Mollo (Italia).
• Premio speciale della Giuria (euro 3.000 in pellicola cinematografica) a:
PRIMOGENITO COMPLESSO di Lavinia Chianello e Tomás Creus (Italia/Brasile).
• Menzione speciale a:
IL RESTO DI UNA STORIA di Antonio Prata (Italia /Svizzera).
SPAZIO TORINO
• Miglior cortometraggio (euro 2.600 in servizi di laboratorio e euro 5.000 in servizi tecnici) a:
IL LAVORO di Lorenzo De Nicola (Italia).
PREMIO CIPPUTI
• Miglior film sul mondo del lavoro (euro 5.000) a:
IN FABBRICA di Francesca Comencini (Italia, 2007, 35mm, 73’)
PREMIO FIPRESCI
• Miglior film di Torino 25 a:
GYEONGUI SEON (La ferrovia) di Park Heung-sik (Corea del Sud).
PREMIO INVITO ALLA SCUOLA HOLDEN PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA
• Premio Invito alla Scuola Holden a:
KUNSTEN Å TENKE NEGATIVT (L'arte del pensiero negativo) di Bård Breien (Norvegia).
La Giuria segnala inoltre altri 5 film:
AWAY FROM HER (Lontano da lei) di Sarah Polley
GARAGE di Lenny Abrahamson
LARS AND THE REAL GIRL (Lars e una ragazza tutta sua) di Craig Gillespie
NAISSANCE DES PIEUVRES (La nascita delle piovre) di Céline Sciamma
THE SAVAGES (La famiglia Savages) di Tamara Jenkins
PREMIO DEL PUBBLICO Achille Valdata
• Miglior film di Torino 25 a:
LARS AND THE REAL GIRL (Lars e una ragazza tutta sua) di Craig Gillespie (Usa).
PREMIO AVANTI!
• LA MAL’OMBRA di Francesco Cressati e Andrea Segre (Italia).
• LES NINJAS DU JAPON (I Ninja del Giappone) di Giovanni Giommi (Italia).
• ROMA RESIDENCE di Andrea Foschi, Marco Stefano Innocenti, Marco Neri e Pietro Pasquetti (Italia).
• CADONO LE MAMME di Cinzia Ghioldi e Roberto Rabitti (Italia)
• PRIMOGENITO COMPLESSO di Lavinia Chianello e Tomás Creus (Italia/Brasile).
• FEDELI ALLA LINEA, QUASI di Tommaso Lessio (Italia).
• RESISTENCIA di Caterina Gueli (Italia).