31° Cairo International Film Festival 2007 - Pagina 4

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31° Cairo International Film Festival 2007
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La casa Gialla
La Maison Jaune (La casa gialla) dell’algerino Amor Hakkar nasce da un'esperienza personale del regista che, nel 2002, è ritornato dalla Francia nel paese in cui è nato per il funerale del padre. E’ un testo nettamente diviso in due parti, una prima racconta, con toni misurati e quasi neorealisti, il viaggio su un piccolo motocarro di un contadino dell'Aures per raggiungere la città e ritirare la salma del figlio, morto in un incidente stradale proprio mentre stava per terminare il servizio militare. La seconda ha toni più psicologici e racconta gli sforzi dell’uomo per far accettare il lutto alla moglie, che si è chiusa in un mutismo auto distruttivo e rifiuta persino di alzarsi da letto. Ci riuscirà facendole ascoltare le ultime parole del figlio, incise su una videocassetta, ma per ottenere ciò dovrà indebitarsi per comperare televisore e videoregistratore e, soprattutto, sconfiggere la piccola burocrazia locale sorda alle sue richieste di essere allacciato alla rete elettrica. Quest’ultima parte ha toni quasi di regime, con l’interessamento provvidenziale del prefetto della regione che strapazza sindaco e funzionari imponendo loro di fare ciò che devono. La non perfetta concordanza fra le due parti compromette ritmo e costruzione del film, sin quasi ad identificare due opere distinte. E’ un difetto di non poco conto che si somma ad un sospetto di testo troppo ufficiale sia per la soluzione narrativa finale, sia per il modo bonario con cui sono trattati personaggi e comportamenti religiosi in un paese in cui, come ci ricordano le cronache quasi ogni giorno, le tensioni fra potere civile e movimenti estremisti islamici hanno prodotto centinaia di morti.
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Scatole
Nel chiudere alcune righe su due titoli comparsi nelle lezioni collaterali. In Boxes (Scatole) di Jane Birkin una sessantenne sta riempiendo, in vista di un trasloco, una montagna di contenitori con gli oggetti accumulati durante una vita. Il film ha un forte taglio autobiografico – l’appartamento da cui sta separandosi è proprio quello in cui l’attrice e cantate ha vissuto sino a poco tempo fa – e l’accumulo di oggetti offre l’occasione per una serie di ricordi – riflessioni su un’intera esistenza. Un flusso mentale in cui convergono persone vive, come le figlie, e spiriti di defunti: il padre e il primo compagno. E’ un inventario delle figure da cui la donna si è separata per cause naturali o per l’esaurirsi di normali vicende sentimentali. Si passa dal primo amore, John Barry interpretato da John Hurt, alla grande storia della vita, Serge Gainsbourg a cui dà corpo Maurice Bénichou, sino a Jacques Doillon, i cui panni veste Tchéky Karyo. La protagonista intrattiene con queste ombre e ricordi un dialogo intenso, un intrecciarsi di discorsi che riguardano, senza alcuna differenza, i vivi e i morti, ombre del passato e realtà del presente. E’ un’opera prima segnata da una lunga e sofferta confessione. Come spesso capita a testi dal forte impianto autobiografico, il punto debole dell’operazione sta nel dare per scontati molti passaggi che, al contrario, dovrebbero essere meglio definiti affinché lo spettatore possa coglierne il senso. Lo stile complessivo oscilla fra momenti dominati dal sentimentalismo – la parte dedicata al fantasma del padre, in particolare al suo abbandono sullo scoglio deserto – a fasi troppo gridate, come l’incontro – fra l’erotico e il violento – con l’ultimo compagno. In definitiva un film sbilanciato, ma ricco di buone intenzioni.
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La battaglia di Haditha
Nick Broomfield ha una solida formazione documentaristica e l’ha messa al servizio di Battle for Haditha (La battaglia per Haditha). Il film ricostruisce il massacro, 24 civili uccisi fra cui donne e bambini, di cui si sono macchiati alcuni marines americani il 19 novembre 2005 nella città irachena di Haditha, dopo che un loro ufficiale era morto in un attentato della guerriglia islamica. La ricostruzione dei fatti è su due fronti: fra gli attentatori che stanno preparando e, poi, eseguiranno, l’agguato e fra i soldati americani, che trascorrono le giornate in una routine piena di rischi improvvisi. La struttura narrativa è quella tipica del documentario in diretta e, in questo, le microcamere inserite sugli elmetti dei militari USA hanno un ruolo decisivo nel conferire un tono di verità all’intero racconto. Meno originale la conclusione, con le crisi simmetriche del capo degli attentatori e del sottufficiale che ha dato il via alla strage. E’ una chiusura un po’ troppo facile, anche se mitigata dall’indicazione netta delle maggiori responsabilità nel massacro. Dopo l’esplosione dello scandalo, innestata delle immagini della strage girate dagli stessi attentatori, diffuse dalla televisione araba Al Jazeera e riprese da alcuni grandi media occidentali, l’esercito USA decise finalmente di incriminare i militari assassini. Il bilancio complessivo è più che positivo, in particolare per l’abilità della regia nell’usare, al meglio, le migliori possibilità del documentario unendole a quelle tipiche del film narrativo. Da lodare, in modo particolare, l’abilità degli interpreti nel rendere attendibili personaggi al limite della follia.