31° Cairo International Film Festival 2007

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31° Cairo International Film Festival 2007
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31° Cairo International Film Festival
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Il Festival Internazionale del Film de Il Cairo è giunto alla 31ma edizione confermando le caratteristiche delle tappe precedenti, almeno di quelle tenute da quattro anni a questa parte. Sono peculiarità che si dividono equamente in positive e negative. Fra le prime c’è l’entusiasmo con cui l’intera struttura partecipa all’evento, tentando e in molti casi riuscendoci, di far funzionare una macchina che deve fare i conti con un clima complessivo non favorevole alla buona organizzazione e alla razionalizzazione degli sforzi. Può capitare, così, che un’attrice e regista dalla biografia prestigiosa, Jane Birkin, si sposti da Parigi per venire a presentare il suo primo lungometraggio narrativo e che non possa farlo in quanto, quando arriva in sala, scopre che il film è già iniziato da una ventina di minuti perché l’esercente ha deciso, senza avvertire nessuno, di anticipare l’orario della proiezione in quanto ha affittato la sala ad un’altra organizzazione per un altro evento. Oppure può succedere che il film d’omaggio a Harvey Keitel, Le Jene (Reservoir Dogs, diretto, 1992, da Quentin Tarantino), sia sostituito, anche in questo caso senza avvertire nessuno, con un film inglese con cui l’attore non ha nulla a che fare, lasciando interdetto il festeggiato, presente in sala, e gran parte degli spettatori. Può succedere che la conoscenza degli orari di partenza dei mezzi di servizio per conferenze stampa e ricevimenti si trasformi in una sorta di caccia al tesoro, o che le tessere che danno diritto ad essere ammessi a incontri con registi e divi, momenti importanti di qualsiasi rassegna cinematografica, cambino, sempre senza preavviso, da un giorno all’altro. Infine, che sia quasi impossibile avere la certezza che un determinato titolo sia presentato con sottotitoli anziché in lingua originale. In poche parole un insieme di problemi che rendono faticoso il lavoro dei molti, in primo luogo fra gli organizzatori, che cercano di far andare avanti in modo corretto e funzionale l’intera macchina. Per quanto riguarda il cartellone la sua composizione appare, ma questa è caratteristica comune a molte rassegne, che essa è segnata più dalle ragioni della diplomazia e dalle reali possibilità di ottenere il film scelto che dalle scelte libere dei selezionatori. Da segnalare, inoltre, il forte condizionamento che la manifestazione subisce da parte della politica ufficiale egiziana. A questo proposito si tenga presente che i finanziamenti di cui si avvale provengono direttamente dal ministero della Cultura, il cui titolare, Farouk Hosny, ha partecipato ad inaugurazione e chiusura in modo pesante. Fra le conseguenze di questo legame, quasi soffocante per la libertà dei selezionatori, c’è il rispetto della pruderie ufficiale che costringe a respingere film appena, appena osé e che due anni or sono ha causato, a quanto si dice, il cambio di direzione della manifestazione in quanto il precedente responsabile si era permesso di mettere in cartellone una retrospettiva delle opere di Petro Almodovar.
Per quanto riguarda i film visti, eccone alcuni, iniziando dalla sezione compativa internazionale.
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Quando è l'ultima volta che hai visto tuo padre?
And When Did You Last See Your Father? (Quando è l'ultima volta che hai visto tuo padre?) è firmato dal regista, prevalentemente televisivo, Anand Tucker che lo ha tratto dal libro omonimo del poeta Blake Morrison. Un anziano sta morendo di cancro e il figlio, noto scrittore, mentre lo veglia ripercorre con la memoria il difficile legame con il genitore, dall’infanzia, nei primi anni sessanta, alla giovinezza e alla maturità. Un rapporto sempre sul filo della tensione e che si è incrinato, quando, da ragazzo, ha scoperto il padre appartato con una sua zia. Lo svelamento di quel possibile adulterio, lo perseguiterà per tutta la vita, aggiungendo fiele ad un confronto già difficile. E’ il classico film inglese confezionato con grande professionalità, interpretato da attori competenti (Jim Broadbent, Colin Firth, Juliet Stevenson) e sorretto da una sceneggiatura debitamente punteggiata di effetti melodrammatici e momenti sentimentali. Un’opera che aggiunge poco o niente ai modi di fare cinema, ma che si fa apprezzare per la solidità della fabbricazione.
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Senza pietà
Fekete fehér (Senza pietà) è un film sostanzialmente televisivo del regista ungherese Elemér Ragályi che lo ha tratto da un fatto di cronaca. L’assassinio di un povero contadino consente alla regia di disegnare un quadro da cui emergono i pregiudizi razziali che segnano l’opinione pubblica magiara nei confronti degli zingari e, in generale, degli emarginati. Un giovane rom è accusato ingiustamente del delitto questo per il solo fatto che aveva lavorato per il morto e questi si era rifiutato di pagarlo. Solo la confessione del vero colpevole lo farà uscire di galere, ma rimarrà sempre, agli occhi dei vicini, un assassino che è riuscito a farla franca. Poco importa che abbia dovuto subire grandi sofferenze, fra cui la morte della madre, spirata mentre lui era in prigione e al cui funerale non gli è stato concesso partecipare. Tutti questi dolori lo spingono alla disperazione e al suicidio. Il film è costruito come un classico testo giudiziario basato su una struttura rigidamente naturalista, quasi documentaristica, anche se non mancano incursioni nel fantastico del tutto immotivate come il sogno di una relazione con la donna giudice che presiede il tribunale. In definitiva un testo professionalmente maturo, ma con ben pochi elementi stilisticamente rilevanti.
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Feretro da affittare
Ataul: for rent (Feretro da affittare) del filippino Neal Buboy Tan dipana un mosaico di storie ambientate in un misero pianterreno situato nel quartiere di Kalyehong Walang Lagusan a Manila. Al centro c’è una coppia che si guadagna la vita affiatando bare e preparando le salme per la sepoltura, attorno, marchettari, prostitute, drogati, giocatori d'azzardo, ubriaconi. Tutto è messo in crisi dalla decisione del municipio di abbattere l’edificio per far posto all’edificazione di una chiesa, cosa che avverrà dopo duri scontri con la polizia, ma con il solo risultato di spostare poco più in là questi disgraziati. E’ il quadro di un inferno in terra in cui tutti imbrogliano tutti pur di sopravvivere, un disegno ad ampio spettro costruito mescolando dolore ed ironia e da cui emergono le terribili condizioni in cui sono costretti questi dannati della terra. Lo stile della regia è ben controllato, anche se si notano alcune influenze televisive, soprattutto per ciò che riguarda la dominanza di primi e primissimi piani. In ogni caso la materia affrontata è particolarmente scottante e lascia molti dubbi sul fatto che una simile produzione possa essere ospitata in un qualche palinsesto televisivo. Le varie storie sono collegate da una sorta di santone, lercio e filosofo, che dovrebbe funzionare da coro. In definitiva un film ben fatto e socialmente sensibile.

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Vivere in una metropoli
Life in a... Metro (Vivere in una metropoli) del regista indiano Anurag Basu è ambientato a Bombay e ruota attorno ad un giovane impiegato, affittuario di un appartamento che presta ai superiori per consentire loro incontri galanti con le amanti. Quando s’innamora di una bella collega e scopre che è una delle frequentatrici di casa sua, manda al diavolo la carriera e si rifiuta di continuare a prestarsi al gioco. Per completare il quadro ci sono varie storie di contorno, che coinvolgono la vita familiare dei uno dei manager adulteri, una ventottenne ancora vergine alla ricerca del principe azzurro e un’anziana che rivive il grande amore della sua vita. E’ un miscuglio di situazioni e citazioni che vanno da Breve incontro (Brief Encounter, 1945) di David Lean a L’appartamento (The Apartment, 1960) di Billy Wilder, per tacere dei riferimenti ai molti film che affrontano il problema dell’amore in tarda età come Una vecchia signora indegna (La vieille dame indigne) di René Allio (1965). Idee molto datate, anche se piacevolmente assemblate e cementate da un’efficace salsa melodrammatica che strizza l’occhio al sociale (la corruzione dei funzionali, la condizione della donna, l’emarginazione degli anziani,…). Un testo gradevole, rinvigorito da un’ottima colonna sonora affidata a Pritam Chakraborty, che funziona da coro e accompagnamento delle varie storie.
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Gelsomino
Jasminum di Jan Jakub Kolski, uno dei migliori registi emersi in Polonia negli anni novanta, ha per sfondo le stanze e il chiostro di una monastero la cui quiete è messa in discussione dall’arrivo di una bella restauratrice, accompagnata dalla figlia di cinque anni, incaricata di ridare vita un antico dipinto. Presto si stabilirà una corrente di simpatia fra la donna e il priore, appassionato del cinema di Federico Fellini del cui Amarcord conosce i dialoghi a memoria. La storia si complica quando l’esperta si dimostra interessata alla ricerca di un profumo capace di distillare il senso profondo dell’amore, aroma che riuscirà a ritrovare nelle ragnatele che avvolgono la bara di una ragazza, morta molti anni prima. La storia non è nuova, vedi Profumo - Storia di un assassinio (2006) di Tom Tykwer, lo stile è quello tipico del cinema polacco colto con grande attenzione per il taglio delle inquadrature, la scenografia, le luci. Nel caso specifico questi elementi non bastano a volgere al positivo il bilancio di un film sostanzialmente modesto e costantemente in bilico fra seriosità e facile ironia.
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L'angelo necessario
Ingerul Necesar (L’angelo necessario) del rumeno Gheorghe Preda è un film al limite dell’informale, che racconta gli incubi di una compositrice e pianista trentenne, affetta da una grave forma di asma, che vive in una casa linda e totalmente bianca. Un giorno inizia a ricevere costosi regali da uno sconosciuto che, per lei, fa dipingere le fiancate dei tram e i muri della città. Incuriosita, accetta un invito in Grecia dell’ammiratore in incognito. In terra ellenica, inseguendo una nera limousine in cui ha intravisto l’uomo misterioso, cade e si ferisce gravemente. Il regista ha dichiarato il suo disinteresse per il cinema realista e, in particolare, quello sociale, e la sua predilezione per le immagini (ha alle spalle un lunga carriera di autore di video clip) anche se staccate dallo svolgimento di una qualsiasi storia. Nel caso specifico il film dovrebbe denunciare, oltre la patinatura e una certa sconnessione narrativa, l’impossibilità di scindere il bene dal male da cui la facile trasformazione degli angeli custodi in demoni, il tutto unito al senso di casualità che domina la vita. Le immagini che ci propone hanno un’indubbia bellezza, così come trasudano fascino le composizioni musicali che cadenzano lo scorrere dell’opera mescolando partiture pre-classiche e suono di strumenti industriali.

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Aspettando il Paradiso
Cenneti Beklerken (Aspettando il Paradiso) del turco Derviş Zaim conferma la tendenza di questo autore a negare i dati realisti e socialmente forti del suo primo film, Tabutta Rövaşata (Capriole nella bara, 1996), in favore di un cinema di grandi mezzi, stilisticamente composito, orientato ai temi morali. In questo caso siamo nell’impero ottomano del 17mo secolo, con le lotte fra il Sultano in carica e un pretendente che viene dalla Spagna e vanta di essere l’erede al trono, in quanto figlio di una dalle concubine del precedente monarca. Il tutto è filtrato attraverso la storia di un miniaturista, che ha perso moglie e figlio e non riesce ad elaborare il lutto. A lui il sovrano assegna il compito di seguire un drappello militare per ritrarre il volto del ribelle prigioniero e condannato a morte. L’artista accetta solo perché obbligato con la forza e, assieme ad una ragazza orfana raccattata lungo la strada, finisce col passare dalla parte dei rivoltosi e dipingere il pretendente iberico in un quadro che cita apertamente Las Meninas di Diego Velazquez. Un’opera che ne legittimerebbe i titoli in quanto nuovo Messia. Finale con ritorno ad Istanbul e alla vita d’artista, con una nuova moglie e un fido discepolo. Il film ha uno stile che mira a riprodurre quello delle miniature, da cui immagini rovesciate, punti di vista diversi della stessa inquadratura, uso di effetti speciali su sfondi di antichi documenti. Un sovraccarico di impostazioni che lo rende confuso e che alterna panorami da cartolina, immagini inutilmente elaborate, disegni animati, inquadrature contornate da cornici. Inoltre il film appare poco chiaro sul piano tematico anche se sottolinea l’impossibilità di forzare l’arte agli interessi della politica. Un piatto piuttosto indigesto e, a tratti, oscuro.
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Caramello
Veniamo ora ad alcuni titoli presenti nella sezione dedicata al cinema arabo. Sukkar banat (Caramello) della libanese Nadine Labaki gioca, sin dal titolo (il caramello è una dolce pasta usata in cucina, ma è anche una ceretta artigianale che le parrucchiere utilizzano per depilare le clienti) su una miscela di ironia e malinconia. A Beirut tre donne gestiscono un istituto di bellezza che diventa il luogo ideale per riflessioni sulla vita, la sessualità, la condizione femminile. C’è la giovane che ha una relazione con un uomo sposato, che la tratta come un oggetto di piacere, che riesce a vendicarsi, parzialmente, depilando con rabbia la moglie dell’amante, c’è la lesbica repressa che dà sfogo alla propria sessualità solo accarezzando i capelli di una bella cliente, c’è la giovane mussulmana che sta per sposarsi e deve farsi ricostruire la verginità per non perdere il futuro marito, infine, tra le clienti, c’è l’anziana che ha sacrificato la vita per assistere la sorella senescente e che ora ha l’opportunità di scoprire un amore tardivo. Il tono è quello di una commedia simpatica e moderatamente irriverente, una miscela dal gusto piacevole anche se stilisticamente non nuova. Un ultimo dato di merito: la nazione da cui arriva questo film è fra le più martoriate e il gusto dell’ironia che pervade questo film è anche una risposta agli orrori della guerra e alla violenza degli uomini.
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Ragazze
Balad El Banat (Ragazze) opera prima dell’egiziano Amr Bayoumi ha al centro quattro studentesse universitarie, provenienti da altrettante province egiziane, che, dopo la laurea, vanno ad abitare assieme e cercano lavoro. A questo punto devono fare i conti con le difficoltà, in particolare quelle legate alla condizione femminile in una società decisamente maschilista. Emarginate, insidiate dai colleghi di lavoro, ingannate da occasionali compagni, seguono percorsi che individuano alcuni fra gli ostacoli che sbarrano la strada alle donne. Temi non nuovi, così come lo stile della regia batte strade già note licenziando un’operazione di modesto valore cinematografico, ma di grande importanza civile. Non è un caso se, alla prima presentazione al pubblico, una parte degli spettatori maschi ha sonoramente fischiato.

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La casa Gialla
La Maison Jaune (La casa gialla) dell’algerino Amor Hakkar nasce da un'esperienza personale del regista che, nel 2002, è ritornato dalla Francia nel paese in cui è nato per il funerale del padre. E’ un testo nettamente diviso in due parti, una prima racconta, con toni misurati e quasi neorealisti, il viaggio su un piccolo motocarro di un contadino dell'Aures per raggiungere la città e ritirare la salma del figlio, morto in un incidente stradale proprio mentre stava per terminare il servizio militare. La seconda ha toni più psicologici e racconta gli sforzi dell’uomo per far accettare il lutto alla moglie, che si è chiusa in un mutismo auto distruttivo e rifiuta persino di alzarsi da letto. Ci riuscirà facendole ascoltare le ultime parole del figlio, incise su una videocassetta, ma per ottenere ciò dovrà indebitarsi per comperare televisore e videoregistratore e, soprattutto, sconfiggere la piccola burocrazia locale sorda alle sue richieste di essere allacciato alla rete elettrica. Quest’ultima parte ha toni quasi di regime, con l’interessamento provvidenziale del prefetto della regione che strapazza sindaco e funzionari imponendo loro di fare ciò che devono. La non perfetta concordanza fra le due parti compromette ritmo e costruzione del film, sin quasi ad identificare due opere distinte. E’ un difetto di non poco conto che si somma ad un sospetto di testo troppo ufficiale sia per la soluzione narrativa finale, sia per il modo bonario con cui sono trattati personaggi e comportamenti religiosi in un paese in cui, come ci ricordano le cronache quasi ogni giorno, le tensioni fra potere civile e movimenti estremisti islamici hanno prodotto centinaia di morti.
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Scatole
Nel chiudere alcune righe su due titoli comparsi nelle lezioni collaterali. In Boxes (Scatole) di Jane Birkin una sessantenne sta riempiendo, in vista di un trasloco, una montagna di contenitori con gli oggetti accumulati durante una vita. Il film ha un forte taglio autobiografico – l’appartamento da cui sta separandosi è proprio quello in cui l’attrice e cantate ha vissuto sino a poco tempo fa – e l’accumulo di oggetti offre l’occasione per una serie di ricordi – riflessioni su un’intera esistenza. Un flusso mentale in cui convergono persone vive, come le figlie, e spiriti di defunti: il padre e il primo compagno. E’ un inventario delle figure da cui la donna si è separata per cause naturali o per l’esaurirsi di normali vicende sentimentali. Si passa dal primo amore, John Barry interpretato da John Hurt, alla grande storia della vita, Serge Gainsbourg a cui dà corpo Maurice Bénichou, sino a Jacques Doillon, i cui panni veste Tchéky Karyo. La protagonista intrattiene con queste ombre e ricordi un dialogo intenso, un intrecciarsi di discorsi che riguardano, senza alcuna differenza, i vivi e i morti, ombre del passato e realtà del presente. E’ un’opera prima segnata da una lunga e sofferta confessione. Come spesso capita a testi dal forte impianto autobiografico, il punto debole dell’operazione sta nel dare per scontati molti passaggi che, al contrario, dovrebbero essere meglio definiti affinché lo spettatore possa coglierne il senso. Lo stile complessivo oscilla fra momenti dominati dal sentimentalismo – la parte dedicata al fantasma del padre, in particolare al suo abbandono sullo scoglio deserto – a fasi troppo gridate, come l’incontro – fra l’erotico e il violento – con l’ultimo compagno. In definitiva un film sbilanciato, ma ricco di buone intenzioni.
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La battaglia di Haditha
Nick Broomfield ha una solida formazione documentaristica e l’ha messa al servizio di Battle for Haditha (La battaglia per Haditha). Il film ricostruisce il massacro, 24 civili uccisi fra cui donne e bambini, di cui si sono macchiati alcuni marines americani il 19 novembre 2005 nella città irachena di Haditha, dopo che un loro ufficiale era morto in un attentato della guerriglia islamica. La ricostruzione dei fatti è su due fronti: fra gli attentatori che stanno preparando e, poi, eseguiranno, l’agguato e fra i soldati americani, che trascorrono le giornate in una routine piena di rischi improvvisi. La struttura narrativa è quella tipica del documentario in diretta e, in questo, le microcamere inserite sugli elmetti dei militari USA hanno un ruolo decisivo nel conferire un tono di verità all’intero racconto. Meno originale la conclusione, con le crisi simmetriche del capo degli attentatori e del sottufficiale che ha dato il via alla strage. E’ una chiusura un po’ troppo facile, anche se mitigata dall’indicazione netta delle maggiori responsabilità nel massacro. Dopo l’esplosione dello scandalo, innestata delle immagini della strage girate dagli stessi attentatori, diffuse dalla televisione araba Al Jazeera e riprese da alcuni grandi media occidentali, l’esercito USA decise finalmente di incriminare i militari assassini. Il bilancio complessivo è più che positivo, in particolare per l’abilità della regia nell’usare, al meglio, le migliori possibilità del documentario unendole a quelle tipiche del film narrativo. Da lodare, in modo particolare, l’abilità degli interpreti nel rendere attendibili personaggi al limite della follia.


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Il nemico intimo
I PREMI

Sezione film in digitale
Premio d’argento (6.000 dollari da dividersi fra regista e produttore):
THE ENGLISHMAN (L’inglese) di IAN SELLAR (Gran Bretagna).
Premio d’oro (10.000 dollari da dividersi fra regista e produttore):
LITTLE MOTH (La piccolo falena) di PENG TAO (Cina).
Menzione speciale:
CARAMEL (Caramello) di Nadine Labaki (Libano).
THE SEVENTH HEAVEN (Il settimo cielo) di Saad Hendawy (Egitto).
Sezione film arabi
Miglior film (100.000 Lire egiziane, circa 13.326 euro, offerti dal Ministero della cultura al produttore del film):
FI IMTIDAR PASOLINI (Aspettando Pasolini) di Daoud Aoulad-Syad (Marocco).
Premio della critica internazionale (FIPRESCI).
A JUAN PATRICIO RIVEROLL per il suo film OPERA (Mexico).
Menzione speciale all’attore Mathew Beard interprete di AND WHEN DID YOU LAST SEE YOUR FATHER? (Quando hai visto tuo padre per l’ultima volta?) di Anand Tucker (Gran Bretagna).
Premio per il miglior contributo artistico
A DERVIS ZAIM per il film CANNETI BEKLERKEN (Aspettando il paradiso) (Turchia).
Migliore opera prima
A OPERA di JUAN PATRICIO RIVEROLL (MEXICO).
Miglior sceneggiatura
A ALBERT TER HEERDT sceneggiatore del film KICKS (Piacere) di ALBERT TER HEERDT (Olanda),
Migliore interpretazione maschile
A ALBERT DUPONTEL interprete del film L'ENNEMI INTIME (Il nemico intimo) di FLORENT EMILIO SIRI (Francia),
Migliore interpretazione femminile
A MARINA MAGRO SOTO per la sua interpretazione in OPERA di JUAN PATRICIO RIVEROLL (Messico).
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A TATIANA LUTAEVA per la sua interpretazione in FULL SCOPE (Piena libertà d’azione) di VALERY PENDRAKOVSKY (Russia).
Miglior regia
A FLORENT EMILIO SIRI autore di L'ENNEMI INTIME (Il nemico intimo) (Francia).
Premio speciale della giuria (Piramide d’argento)
A IN THE NAME OF GOD (Nel nome di dio) di SHOAIB MANSOUR (Pakistan).
Miglior film (Piramide d’oro)
A L'ENNEMI INTIME (Il nemico intimo) di FLORENT EMILIO SIRI (Francia).