29 Marzo 2019
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31° Cinélatino, Toulouse |
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El viaje extraordinario de Celeste Garcia (Lo straordinario viaggio di Celeste Garcia) del cubano Arturo Infante, già presentato al Festival di Toronto, ha inaugurato cinelatino, 31es rencontres de Toulouse. Con quattro giurie principali: finzione, documentari, corti, Focus îles caraïbes, e con un centinaio di film in catalogo, il Festival concluderà i dieci giorni di competizione domenica 31 marzo. Tra i numerosi ospiti di questo appuntamento col cinema latino-americano sulle rive della Garonna, Fernando Solanas e Luis Sepúlveda guidano una schiera di una cinquantina di cineasti.
Tredici i lungometraggi di finzione che concorrono per il Grand Prix Coup de Coeur. Del quarantacinquenne brasiliano Helvécio Marins Jr, il cui primo film del 2011, Girimunho, ottenne il Prix Interfilm alla 68° Mostra di Venezia, è stato presentato un film al limite tra documentario e finzione, Querência (Attaccamento). Nativo di Belo Horizonte, il regista narra di Marcelo, un allevatore di bestiame che ha una fattoria nella regione di Minas Gerais, il quale subisce un attacco a mano armata da parte di banditi che gli sottraggono un centinaio di capi di bestiame riducendolo sul lastrico. Senza più lavoro e costretto ad abbandonare il luogo e gli amici, Marcelo rispolvera un vecchio sogno, quello del rodeo di tori. E prima di congedarsi organizza un torneo che è al centro del film e che riporta lo spettatore a un mondo antico, quello delle sfide personali dove uomini semplici si misurano in una pericolosissima tauromachia per una affermazione di sé che li ricompensi di altre sciagure e disfatte. Girato quasi sempre al crepuscolo e con scene notturne, il film si svolge al limite tra il giorno e la notte, ma anche tra l'invadenza del reale e il rifugio nel sogno, e tra la solitudine di chi è costretto a congedarsi e l'affetto degli amici. Per coloro che vivono in aree urbane, il film, pur svolgendosi ai nostri giorni, sembra rievocare atmosfere rurali dell'Ottocento. Prodotto da Brasile e Germania, dura novanta minuti.
Totalmente differente l'atmosfera che si respira nel film messicano Las niñas bien (Le ragazze di buona famiglia) della trentasettenne Alejandra Márquez Abella, già visto in alcuni Festival del 2018. Basato sul romanzo di Guadalupe Loaeza, mostra il mondo dorato di Sofia, moglie ideale di un magnate, la quale trascorre le giornate tra raffinati ricevimenti che allestisce nella sua villa, sale da tè e campi da tennis. Siamo a Città del Messico nel 1982, e il mandato del presidente López Portillo è al termine. Chiuderà in una maniera infamante, ma soprattutto lascerà il paese sul baratro della bancarotta. E anche per Sofia la bella vita ha le ore contate. Gli americani ritirano i loro investimenti, i pesos si svalorizzano in rapporto al dollaro, e molti imprenditori messicani vengono risucchiati da un inevitabile declino. Quello che illustra il film è il mondo dell'opulenza e dell'eleganza, del lusso a oltranza, dei beni firmati e della concorrenza spietata nell'allestimento di ricevimenti, ma anche del chiacchiericcio e delle invidie che si imbastiscono alle spalle di tutti. La più colpita è una giovane donna, sposata con un faccendiere di successo, ma che alla fine risulterà vincente perché l'attività del marito per quanto considerata rozza ha solide basi sul territorio. Di Sofia il film descrive l'apoteosi e il progressivo declassamento sociale che porta allo scontro col marito nel quale si insultano e si dilaniano. Poi la riconciliazione suggerita dalla nuova situazione li induce a collaborare con la persona che fino a quel momento avevano denigrato. La regista che nel 2011 aveva girato il documentario Mal de tierra e nel 2015 il lungometraggio di finzione Semana santa ha racchiuso in novantatré minuti l'eden dorato della upper classe di un popolo che quotidianamente tenta di varcare il confine con gli USA in cerca di una vita migliore.
Un tema comune, sebbene in diversa misura, lega tre dei film in concorso a cinelatino 31es rencontres de Toulouse: l'omosessualità. Quello più riuscito è senza dubbio Luciérnagas (Lucciole), secondo film della quarantaduenne Bani Khoshnoudi, artista, cineasta e produttrice di origini iraniane. Realizzato da quattro paesi: Messico, Usa, Grecia e Repubblica Dominicana, il film si svolge a Veracruz dove un giovanotto di Teheran tenta di imbarcarsi per l'Europa. La somma per la traversata clandestina su un cargo è troppo elevata, e Ramin: ha poco più di trent'anni, non parla spagnolo e conosce soltanto poche parole d'inglese, non si da pace. È alloggiato in un piccolo albergo dove la figlia del proprietario lo tratta con garbo, ma lo vediamo in contatto via internet col compagno che ha lasciato a Teheran. Lui è scappato per motivi politici e a causa del suo comportamento sessuale, e ora si sente solo e in un vicolo cieco. Il film illustra il suo atteggiamento serio e pacato in una delle città più pericolose del Globo, l'incontro con un paio di guatemaltechi in procinto di attraversare gli Usa per recarsi in Canada, e la vicenda della locandiera, una giovane fiera e decisa, abbandonata dal suo ragazzo che ora è tornato dagli Usa e vorrebbe affibbiarle il bambino avuto da un'altra. Il film dura novanta minuti e dopo la descrizione di solitudine e di incomprensione che gravano sullo straniero si chiude con una festa di carnevale dove Ramin scorge una via d'uscita e dove la locandiera sorride scoprendo la sua omosessualità.
Secondo film anche Temblores (Tremori) del guatemalteco Jayro Bustamante, la cui opera prima Ixcanul vinse l'orso d'argento alla Berlinale del 2015. Difficile, invece, sarebbe un premio per questa contorta vicenda di centodieci minuti. Durante i primi cinquanta non si capiscono i motivi del declassamento e dell'ostracismo verso un quarantenne della classe agiata che la madre tenta di proteggere mentre i parenti lo considerano la vergogna della famiglia. Qualcosa deve aver commesso Pablo, marito di una donna di classe e padre di due adorabili bambine, ma non si capisce cosa, neanche quando la moglie tenta una riconciliazione. Al minuto cinquanta emerge un termine improprio: pedofilo. In realtà Pablo mantiene una relazione con Francisco, giovane massaggiatore di una palestra dove sua madre è cliente. E durante un'ora, dopo aver perso il posto di lavoro e dopo il divieto di contatti con i figli, il film mostra le titubanze di un uomo che vorrebbe rimanere a capo della sua famiglia e mantenere la relazione col suo compagno. E sarà la chiesa, in un paese dove l'omosessualità è considerata una devianza che va corretta, a impiegare Pablo e offrirgli un'opportunità per reinserirsi nella società borghese.
Film d'esordio Todos somos marineros (Siamo tutti marinai) di Miguel Angel Moulet, quarantenne peruviano che si è formato a Cuba. Si apre con una vecchia nave russa alla rada nelle acque peruviane. A bordo tre uomini: il capitano e i fratelli Tolya e Vitya, macchinista e cuoco. È sparito il radar e ci sono accertamenti in corso. Loro vorrebbero soltanto tornare a casa, ma sono costretti a registrarsi alla polizia portuale e attendere i risultati dell'iter burocratico. Tolya riannoda una vecchia relazione con Sonia, gerente di una tavola calda, e Vitya, malaticcio, da una mano a Tito, giovane protetto di Sonia. Dopo interminabili giornate di attesa, Tolya confida al capitano di aver tentato di vendere il radar perché da mesi l'impresa non li ha più retribuiti, ma l'affare non è andato in porto e ora il radar è tornato al suo posto. Comprensivo, il capitano minimizza il fatto. Nel frattempo, l'impresa gli ha inviato un passaggio aereo per tornare in Russia, e i due fratelli dovranno attendere ancora. Durante la snervante attesa, Tolya sorprende il fratello durante un rapporto sessuale con Tito. Nel tentativo di separarli, viene colpito da Tito con un tubo di metallo, ma si difende ferendolo gravemente. A nulla varranno i tentativi di salvarlo e dovrà affidare il cadavere alle acque dell'oceano. Non dirà niente a Sonia, ma si fingerà a suo lato nelle vane ricerche. Girato con attori non professionisti il film si svolge durante centodieci minuti mettendo in risalto la solitudine e il disorientamento dei due marinai ancorati in un porto simile a un incubo dal quale non riescono a uscire. Non mancano lentezze e alcuni passaggi poco chiari, ma nell'insieme rende bene il senso di solitudine e di estraniazione.
Dura cento minuti ed è girato in un interno uno dei film più interessanti del concorso Coup de Coeur di cinelatino, 31es rencontres de Toulouse. La camarista, (La domestica), film d’esordio dell’ex attrice di teatro messicana, Lila Avilés, (1982), si svolge all’interno di un albergo di lusso di Città del Messico che domina la città dall’altezza dei suoi 42 piani. La protagonista è Evelina, (Gabriela Cartol), Eve per i colleghi, con i quali ha pochissimi contatti. Seria, meticolosa, discreta, la giovane ha un piccolo che lascia alla cura di conoscenti perché vive sola e spesso in albergo le prolungano l’orario. Seleziona e conserva con affetto cose di poco valore volutamente lasciate da clienti Vip in partenza, oggetti che entrano a far parte di un universo interiore che in parte creano un equilibrio con lo snervante lavoro quotidiano. Considerata la migliore, è candidata per l’assegnazione definitiva delle pulizie del 42° piano, quello dei Vip. Il film illustra la routine del suo lavoro mettendo in risalto comportamenti a volta eccentrici di ospiti particolari, il rispetto e la dedizione della cameriera e la sua volontà di migliorarsi frequentando un corso di studi serale. E non mancano incombenze quotidiane durante le quali i colleghi tentano di venderle prodotti di consumo, di coinvolgerla in gruppi chiassosi o di chiederle sostituzioni. Lei resiste: perfetta nella sua abnegazione si prodiga nell’attesa della ricompensa finale, che tuttavia andrà a una collega maneggiona. Cento minuti tra camere d’albergo in un racconto teso e pieno di punti curiosi che nel finale vedono vacillare la volontà della protagonista che si scopre sola e indifesa.
Del 1983 è invece l’argentina Maria Alché, anche lei attrice, protagonista di La niña santa di Lucrecia Martel, a Toulouse con la sua prima regia, Familia sumergida (Famiglia sommersa), già presentato al Festival di Locarno. Marcela, madre di tre adolescenti, vive un momento di confusione in seguito alla morte della sorella Rina. E deve far fronte alle intemperanze dei figli, mitigare la delusione di quella abbandonata dal fidanzato e assistere al trasloco della più grande. Quando il marito si assenta per motivi di lavoro, nella baraonda familiare si presenta l’amico di un amico delle figlie, un giovane discreto e servizievole che le ripara la lavastoviglie, le da una mano nel sistemare la camera della sorella e mostra interesse per i libri della defunta. L’accompagna anche nella visita a una coppia di parenti con i quali bevono e ballano. E il vino è all’origine di un breve flirt tra i due. Di nuovo a casa, Marcela accoglie uno stuolo di parenti completato dal ritorno del marito con i quali rivangano vecchie storie di famiglia, rispolverate da punti di vista contrastanti tra un brindisi, un pasticcino e vecchie musiche. È nuovamente la baraonda familiare dove il pro e il contro si avvicendano senza recare danni. Novanta minuti per un esordio promettente e per la misurata interpretazione di Mercedes Moràn.
Film d’esordio anche quello della trentatreenne Lucìa Garibaldi, Uruguay, Los tiburones (Gli squali) su una quindicenne, Rosina, che nel desiderio di uscire dall’adolescenza provoca Joselo, un giovane pescatore. Nel villaggio si è sparsa la voce della presenza di squali e approssimandosi la stagione estiva si tende a non dar risalto alla notizia. Rosina, figlia di un imprenditore locale, ne approfitta per circuire Joselo, ma davanti a tanta insistenza il giovane non riesce a concentrarsi. Per vendicarsi, la ragazzina gli porta via il cane al quale è molto legato e, nel finale, progetta un piano avventuroso slegando la sua barca e lasciando penzolare una rete con pezzi di carne e sanguinacci che dovrebbero attirare gli squali. Il film si chiude col giovane che si tuffa a mare per recuperare il battello. Determinante l’interpretazione di Romina Bentancur nei panni dell’adolescente inquieta e solitaria il cui desiderio di emanciparsi ne fa una predatrice.
Dopo Miriam miente (Miriam mente) della dominicana Natalia Cabral e dello spagnolo Oriol Estrada, film in concorso a Karlovy Vary da dove ne abbiamo scritto, restano tre film in concorso a cinelatino, rencontres de Toulouse: due esordi e un secondo film. Direttamente da Malaga, dove è stato presentato la settimana scorsa, l’opera prima del ventinovenne cileno Juan Cáceres, Perro bomba, (Cane bomba), che nel gergo carcerario cileno sta per “il sacrificato”. Parla dell’emigrazione interna all’America latina, da Ecuador e Perù verso il Cile, ma anche da Haiti dove gli abitanti parlano una lingua creola derivata dal francese. A Santiago vive una comunità di neri che si appoggiano sulla chiesa locale e che svolgono lavori umili e spesso faticosi. Steevens è tra questi. Giovane leale e discreto, lavora nelle costruzioni. Quando riesce a far assumere un amico d’infanzia che non parla spagnolo, è felice. Senonché uno scherzo dei colleghi al nuovo arrivato provoca l’ira dell’imprenditore che gli grida “sporchi negri” provocando la sua reazione. E perde il lavoro. Non solo, ma il silenzio dell’amico sulle ragioni dell’accaduto, ne fanno l’unico colpevole e viene espulso anche dalla comunità haitiana. Durante ottanta minuti il film descrive le peregrinazioni di Steevens alla ricerca di lavoro e di un alloggio mettendo in risalto il diffuso razzismo verso gli emigrati di colore e l’atteggiamento gretto ed egoista della comunità haitiana.
Ultimo film in concorso, quello di Alejandro Landes, di origini brasiliane, São Paulo 1980, ma affermatosi come regista in Ecuador e Colombia. Nel 2011 il suo film colombiano d’esordio, Porfirio, venne incluso nella Quinzaine des Réalisateurs di Cannes. Questo secondo film, Monos, letteralmente scimmie, (nel gergo del film indica adolescenti in armi che sulle montagne colombiane fanno la guardia a ostaggi catturati dalle FARC), proviene dal Festival di Sundance e ne è prevista l’uscita in Italia a giugno. Descrive la disciplina ferrea imposta a ragazzi e ragazze tra i 15 e i 20 anni, su cime desolate coperte da nuvole, il rude addestramento militare e i turni di guardia a una signora incatenata, ingegnere nordamericano del quale forse è stato chiesto il riscatto. L’equilibrio tra loro si spezza quando, accidentalmente, viene uccisa una mucca affidatagli unicamente per il suo latte. Il colpevole viene bastonato a sangue, uno si suicida, l’americana tenta la fuga mettendo nei guai il giovanissimo carceriere, un altro diserta affidandosi alle acque di un fiume che scorre impetuoso verso la valle. Il film dura poco più di cento minuti e descrive insieme con l’asperità della montagna e della selva, la promiscuità e la violenza della vita quotidiana di un drappello di disperati, incalzati dalle forze armate colombiane, i quali finiscono col giustiziare il capo indiscusso della loro cellula e a scontrarsi tra di loro. Al di là di sottintesi riferimenti politici, Monos s’impone come roboante film d’azione popolato da ragazzi armati che per disciplina, o per mimetizzarsi nella foresta amazzonica, si comportano come scimmie selvagge. La sceneggiatura è firmata dal regista e dall’argentino Alexis dos Santos, regista nel 2006 di Glue.
Il Premio del Pubblico, offerto dal giornale “La Dépêche du Midi”, è stato assegnato a Temblores (Tremiti) di Jayro Bustamante, (Guatemala, Francia, Lussemburgo). Il Premio Internazionale della Critica, FIPRESCI, riservato a primi e secondi film, è stato aggiudicato a Todos somos marineros (Tutti siamo marinai) di Miguel Ángel Moulet (Peru, Repubblica Dominicana). Quello della critica francese è andato invece a Miriam miente (Miriam mente) di Natalia Cabral e Oriol Estrada, (Repubblica Dominicana, Spagna). Monos di Alejandro Landes (Colombia, Argentina, Olanda) è stato coronato dal Prix des Électriciens Gaziers di Toulouse , mentre il premio dei ferrovieri è andato a Temblores.
Il Premio per il concorso riservato ai lungometraggi documentari è stato vinto dal messicano Cuando cierro los ojos (Quando chiudo gli occhi) di Michelle Ibaven e Sergio Blanco. Il film ha ottenuto anche il Premio SIGNIS, quello dell’Associazione Cattolica Mondiale per la Comunicazione. Premio del Pubblico al colombiano The smiling Lombana (Il sorridente Lombana) di Daniela Abad Lombana.
Miglior cortometraggio Arcángel (Arcangelo) del messicano Ángel Cruz, e menzione speciale a Susurro bajo la tierra (Mormorio sotto terra) di Lilia Alcalá (Venezuela). Premio del Pubblico: Casi famoso (Quasi famoso) di Gonzalo Díaz (Cile). Premio SIGNIS: Dulce (Dolce) di Guille Isa e Angello Faccini (Usa, Colombia).
Nella manifestazione parallela Cinéma en Construction 35, tre premi sono stati assegnati a Algunas bestias (Qualche bestia) di Jorge Riquelme Serrano (Cile) e uno a Ceniza negra (Cenere nera) di Sofía Quirós Ubeda (Costarica, Cile, Argentina, Francia).
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