64ma SEMINCI - Semana Internacional de Cine - Valladolid

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And Then We Danced-464625341-largeLa pioggia non ha infastidito il tappeto rosso della 64ª SEMINCI di Valladolid che sotto le arcate del Teatro Calderón ha accolto una schiera di famosi attori spagnoli essendo il film d’apertura Intemperie, quarto film dell’andaluso Benito Zambrano. Il concorso, invece, è stato inaugurato dalla produzione di Svezia, Francia e Georgia, Da cven vicekvet, (Allora balliamo) dello svedese Levan Akin (1979), figlio di immigrati georgiani.

E il film è ambientato a Tiflis e interpretato da attori locali. Si apre con una scuola di danza, quella nazionale dove si preparano i giovani per le performance internazionali, e dove l’identitá nazionale si riflette sulla formazione degli allievi. Come ribadisce il maestro, le nostre danze non possono essere come quelle brasiliane nelle quali a volte è evidente la componente sessuale: gli uomini devono risultare  uomini in tutti i loro movimenti, e lo stesso vale per le donne. Per quanto scevro da volute implicazioni omofobiche, l’insegnamento risulta chiaro. Merab, non ancora ventenne, è il piú promettente degli allievi. Fin da bambino in copia con Mary, formano un duo d’eccellenza. Tuttavia l’insegnante non si sbottona: tutti possono far parte del balletto d’elite, e per Merab è dedizione e sacrificio perché lavora come cameriere per far quadrare il bilancio di una famiglia composta dalla madre e dalla nonna, da un fratello spesso ubriaco, e dal padre che si è allontanato. Complica il suo percorso un coetaneo proveniente da Batumi, Ikla, presentatosi come sustituto e che dimostra tanta disciplina e padronanza da meritarsi tutta l’attenzione del maestro. Senonché la vicenda ha uno sviluppo imprevisto. La reciproca ammirazione si traduce in un legame affettuoso che sfocia in un paio di rapporti sessuali. E quando Ikla, senza avvertirlo, torna a Batumi per assistere il padre Morente, Merab è disorientato, e durante gli esercizi si ferisce a un piede. Il film dura 106 minuti e apre una finestra sulla gioventú georgiana, sui sogni e sugli svaghi, mentre narra una vicenda simbolica che tasta il polso ai comportamenti e alla mentalitá di una comunitá cristiana d’oriente e ha debuttato nella Quinzaine di Cannes.
imagesYULBUF8YSecondo film in concorso, Bergmál (Eco, Fatto) dell’islandese Rúnar Rúnarsson, prodotto da Islanda, Francia e Svizzera. Racchiuse in 79 minuti circa 56 scene della vita quotidiana islandese: non una storia con un’inizio e una fine, e nemmeno un personaggio che accompagni gli spettatori. Tuttavia i protagonisti sono molti, e tutti rappresentativi di comportamenti quotidiani. Si apre durante le festivitá natalizie con un vecchio casolare in fiamme. Il proprietario gli ha dato fuoco perché costa meno una casa prefabbricata e montata che restaurare il vecchio edificio. Intervallate da immagini dell’oceano, molte le scene di nervosimo, dalle rimostranze di una govane donna che si occupa di un allevamento a quelle di una signora paranoica che accusa un autista di importunarla. Non mancano scene di esercizi motori per anziani in acque di sorgenti calde, né quelle dei bambini nelle piscine. Si assiste anche a un felice parto, seguito da una scene della raccolta dei rifiuti urbani. Considerando il due volte premiato regista svedese Lars Larsson, i cui film metafisici dalle atmosfere sospese tra realtá e infinito gli hanno valso persino un Leone d’oro, va detto che niente di tutto ció è presente nel film di Rúnar Rúnarsson, che ci offre immagini della modernitá mediate da un’ottima fotografía.


Ha appena ottenuto il primo premio al Festival di Gand, Öndög, (L’uovo del dinosauro) del regista cinese Wang Quan’an presentato oggi in concorso. Diplomatosi nel 1991 all’Accademia di Cinema di Pechino e autore di alcuni film coronati alla Berlinale, il regista ha ambientato in Mongolia, terra di sua madre, una vicenda di vita, d’amore e di morte. Nella steppa, sconfinata e inospitale, una pastora vive sola occupandosi dell’allevamento di pecore, buoi e cavalli. Intorno a lei nessuno abita nello spazio di un centinaio di chilometri, ma quando viene ritrovato il cadavere di una donna e un giovane agente viene lasciato sul luogo per proteggere la salma dall’attacco dei lupi, le viene richiesto di collaborare con la guardia fino all’arrivo, la mattina successiva, degli esperti che si occupano del caso. Il giovanotto morirebbe di freddo se la pastora non gli portasse la cena. Non solo il capretto arrosto, ma anche la legna per il faló, di che coprirsi e alcohol in abbondanza. E dopo abbondanti bevute, la giovane donna insegna al ragazzo, che ha appena compiuto diciotto anni, i primi rudimenti dell’amore. Il giorno dopo l’assassino viene catturato, la salma portata in obitorio e l’agente torna in cittá. Passano giorni prima che la pastora scopra di essere incinta. Non sapendo se abortire, nel dubbio ne parla con un compagno che da tempo le chiede di sposarla. Con protagonisti non attori, (Enkhtaivan Dulamjav, Norovsambuu), il film funge da introduzione a una latitudine poco frequentata, alla vita quotidiana nella steppa dove la modernitá è rappresentata dai telefonini, dalle auto e dalle moto, per non parlare del consumo di sigarette, ma i rituali e i comportamenti sono ancestrali. La natura è al centro di tutto, e il regista, autore anche di una sceneggiatura non scritta, ne illustra i vasti scenari durante 97 minuti, dalle gelide notti agli sconfinati orizzonti di sole sulla pianura battuta dal vento, senza dimenticare sentimenti e percorsi dei protagonisti.
Dal momento che figura in concorso, spazio anche per il film d’inaugurazione, Intemperie dell’andaluso Benito Zambrano che vent’anni fa esordì col premiato Solas e che ha realizzato altri film di successo prima di concedersi questa sorta di avventura stile Western. Di fatto ha adattato per gli schermi il romanzo omonimo di Jesus Carrasco, narrando di un undicenne che scappa dal villaggio dove un potente locale agisce da padrone assoluto. Siamo nel 1946, nella Spagna franchista, e il proprietario terriero ha deciso di non farsi scappare il bambino. Ricatta la sua famiglia e invia sulle sue tracce degli sgherri armati, che brutalizzano e uccidono povera gente pur di rintracciare il fuggitivo. Ne nasce una classica situazione da Far West nella quale il bambino incontra un pastore solitario, ex legionario nel Marocco spagnolo, il quale lo protegge dagli inseguitori. Si delinea un percorso a ostacoli dove a volte i due hanno la meglio e a volte soccombono, ma alla fine riescono a eliminare i malvagi anche se il pastore pagherá con la vita l’aiuto dato al bambino. Prodotto da Spagna e Portogallo, il film dura 103 minuti, si svolge su terre aride bruciate dal sole e riesce a catturare l’attenzione del pubblico con un ritmo sostenuto, con frequenti scaramucce, e con brutali esecuzioni in una vicenda nella quale i cattivi sono sempre e volutamente cattivi, e i buoni morigerati ed ecumenici. Nei panni del pastore, Luis Tosar, attore molto in voga, appena visto a Sitges nel film Ventajas de viajar en tren.tutto ció è presente nel film di Rúnar Rúnarsson, che ci offre immagini della modernitá mediate da un’ottima fotografía.      


Bulgaria in concorso alla 64a SEMINCI di Valladolid con un film prodotto da Bulgaria, Gran Bretagna e Francia: Cat in the Wall (Gatto nel muro) di Mina Mileva e Vesela Kazakova, già presentato al Festival di Locarno. Girato in un quartiere popolare di Londra, dove gli autori vivono da anni, affronta la situazione degli immigrati al tempo della Brexit. Irina è architetto e madre di un bambino di sei anni. Vive col fratello in un’appartamento di proprietà in una zona centrale e preferisce lavorare come cameriera piuttosto che accettare il sussidio del sistema britannico di protezione sociale. E si batte per i diritti dei proprietari, britannici e stranieri, contro l’amministrazione comunale che crea sempre nuovi vincoli per indurli a vendere e a far posto a nuovi ricchi. Tuttavia i litigi nel condominio sono frequenti, e scontri e incomprensioni all’ordine del giorno. E un gatto metterà fine a qualsiasi possibilità di convivenza civile. Irina lo trova dietro la porta di casa, e per un paio di giorni si rifuta di farlo entrare. Poi per toglierlo dal freddo lo lascia entrare e il figlio gli si affeziona. Alcuni giorni dopo, alcuni inquilini inferociti bussano alla sua porta sostenendo che ha rubato il felino. Dopo un infuocato battibecco, Irina restituisce il gatto, ma i vicini, coalizzati, decidono che deve andar via, e per riuscire nell’intento presentano accuse alla polizia che interviene accusando il fratello di lei e portandolo al commissariato. Primo lungometraggio di finzione dopo alcuni documentari di successo, Cat in the Wall  dura 92 minuti e mostra i mutati comportamenti nei conglomerati urbani britannici dove le incertezze legate alla Brexit e le derivanti insicurezze, spingono i rappresentanti della sottocultura, che in grande maggioranza vivono di sussidi, ad aggredire e colpevolizzare il ceto medio.

Ci porta invece in uno sperduto villaggio dell’Anatolia Kiz Kardeṣler (Racconto di tre sorelle), terzo film del turco Emin Alper. Stando alla tradizione, ragazze povere dei villaggi di montagna sognavano di andare a lavorare in cittá presso famiglie benestanti. In cambio dei servizi resi, riuscivano a emanciparsi. Venivano definite ragazze accolte e chiamavano padre e madre i capifamiglia. Lo stesso regista é figlio di una di queste ragazze, e fin da giovane pensava di fare un film, che ha realizzato basandosi anche su un racconto di Anton Cechov. Il film si apre col ritorno a casa di tre sorelle. Reyhan, 20 anni, ha avuto un bambino che sperava potesse essere adottato dalla famiglia e che invece é stato causa del suo allontanamento. Nurhan, 16 anni, stanca di lavare tutti i giorni le lenzuola di un figlio viziato, ha osato redarguirlo. Havva, 13 anni, ha dovuto lasciare perché il bambino che accudiva é morto di una malattia terminale. A casa col padre, e col marito di Reyhan, un pastore povero e analfabeta che ha dovuto sposare in fretta per legittimare il bambino, ritrovano momenti di gioia ma anche di vivaci discussioni. Tutte vorrebbero partire, e la visita del medico presso il quale era stata accolta Havva riaccende speranze e rivalitá. Dopo aver vinto il Premio della Giuria a Venezia 2015 col suo secondo film, Abluka, con questo terzo film Emin Alper si muove dalla parte delle donne dando vita a un simpatico pamphlet, che é anche dramma, commedia e favola. Dall’accurata descrizione della dura vita nei casolari montagna spesso bloccati dalla neve al rispetto per gli anziani e ai sogni delle ragazze, il film é accattivante, e molto incisive risultano le tre interpretazioni femminili di Cemre Ebuzziya, Ece Yὕksel, Helin Kandemir.     


Forse la più scialba delle pellicole viste finora in concorso alla 64° SEMINCI, la cinese The Farewell di Lulu Wang, nata a Pechino ma cresciuta a Miami e a Boston. Applaudito al Festival di Sundance, il film narra in cento minuti la storia dell’anziana Nai-Nai affetta da un tumore ai polmoni che la sorella e i figli le nascondono. Tuttavia, la nipote Billi e i genitori che vivono negli Usa tornano in Cina e organizzano una festa di matrimonio per riunire tutti i parenti intorno alla nonna. Il film descrive comportamenti e stratagemmi alla vigilia della festa per far credere all’anziana che soffre soltanto dei postumi di una polmonite. Vicenda sentimentale con qualche accenno di commedia scorre senza sorprese mostrando una nonna in piena forma e che sei anni dopo è ancora lì, sorridente e fiduciosa.
Diverso il primo lungometraggio dello spagnolo Polo Menárguez, El Plan di 79 minuti ispirato dall’omonimo dramma teatrale di Ignasi Vidal. Tre amici in un appartamento: Paco, Ramón e Andrade, disoccupati per la chiusura dell’azienda, si riuniscono a casa del primo per mettere in atto un piano. Senonché il quarto amico, che doveva raggiungerli in auto, ha avuto un guasto e il progetto è rimandato. Andrade ha dormito poco, e si fa una canna. Paco, padrone di casa, non è d’accordo. Nasce una lite, e nello scontro taccia Paco di impotenza. Messo alle strette, confessa che glielo ha detto l’autista che stanno aspettando. Convinto di essere stato tradito dalla moglie, Paco scende in attesa del rivale, ma questi non si fa vivo. Nel frattempo, Andrade ha raccontato a Ramón di aver incontrato una donna che ha voluto parlare con lui, e ha scoperto trattarsi della madre che lo aveva abbandonato quando aveva otto anni. Tornato Paco, Ramón vaneggia vaghe teorie filosofiche per confessare poi confusamente di aver forse ucciso moglie e figli. Tutto in un interno un gioco al massacro tra poveri diavoli.
Goran Paskaljevic, il regista serbo che a Valladolid ha vinto tre Spighe d’oro, ha presentato in concorso l’anteprima mondiale del film prodotto da Italia, Serbia, Macedonia del Nord e Francia, Nonostante la nebbia che ha scritto insieme a Filip David. Interpretato da Donatella Finocchiaro e Giorgio Tirabassi, narra di un bambino scappato da un centro di rifugiati nel Lazio per raggiungere i genitori che crede abbiano raggiunto la Svezia e che invece sono annegati. Raccolto di notte sulla strada da un restauratore che sta rincasando, viene ospitato a Roma e accolto con qualche apprensione dalla moglie che sta uscendo dalla depressione dopo aver perso il figlio adolescente. Il film mette in evidenza preoccupazioni e indecisioni della coppia che per rispetto della legge considerano di consegnare il bambino, Mohammed, a un centro. Vi rinunciano dopo averne visitato uno. Poi la donna si affeziona al bambino che porta in visita a genitori e fratelli, ricevendo reazioni contrastanti. Non solo, ma il bambino che parla soltanto arabo, insiste nella sua decisione di andare in Svezia. E quando a Natale lo portano in chiesa a una messa cantata, Mohammed grida alla donna di non essere suo figlio. Il film, nel cui cast figurano anche Anna Galiena, Francesco Acquaroli, Luigi Diberti, Francesca Cutolo, dura cento minuti e tenta di descrivere attraverso un microcosmo i problemi dell’accoglienza, la diffidenza verso lo straniero, e le barriere sorte da malintese interpretazioni religiose. Lo fa attraverso la descrizione della crisi di una coppia e delle complicate relazioni tra famiglie adoperando il bambino come ago di una situazione che fatica a decollare anche, e forse proprio a causa della scelta di un personaggio, Alì Mousa Sahran nei panni di Mohammed, poco più di un’immagine sballottata in mezzo all’appassionata interpretazione del duo Finocchiaro/Tirabassi.                  
Più pregnante il film islandese Hèradid (The County) di Grimur Hàkonarson, che nel 2015 vinse qui la Spiga d’oro. Applaudito al Festival di Toronto, descrive la battaglia di una donna sola contro lo strapotere delle cooperative. Inga, agricoltrice di mezz’età, perde misteriosamente il marito. Forse un malore alla guida del furgone, forse un suicidio. Sta di fatto che lei voleva sottrarsi al monopolio della cooperativa, e lui non si esprimeva. Il sospetto che fosse obbligato dalla dirigenza a delazioni su chi voleva rendersi indipendente, pena la bancarotta della sua fattoria, emerge poco a poco. Inga, pero’ non ci sta. Decide di vendere il latte ad altri offerenti, scrive un articolo su Internet parlando di mafia delle cooperative e rilascia un’intervista nella quale accenna anche all’improvvisa e inspiegabile scomparsa del marito. Seguono alcune azioni intimidatorie nei confronti della donna che reagisce con determinazione senza lasciarsi intimidire, e riesce persino ad aggregare un numero sufficiente di agricoltori per formare una cooperativa lattiera indipendente. E’ un trionfo per la regione, ma a lei sottrarranno la fattoria per bancarotta, e dovrà ricostruirsi una vita altrove. Ragione di piu’ per recarsi nell’agognato Sud e concedersi una vita piu’ partecipata, in allegria e in amicizia, concedendo al lavoro lo spazio essenziale per guadagnarsi da vivere.   Sembra un racconto di Voltaire, quando scrive che importante nella vita è continuare a coltivare il proprio orto. In effetti ha tutti i requisiti di un racconto morale descritto dal percorso di Inga, interpretata con molta grinta da Arndis Hrönn Egilsdottir in un film di novanta minuti che affronta un poblema sociale col ritmo di un thriller.
Sicuramente bizzarra la partecipazione nel concorso del film argentino Hombres de piel dura (Uomini di pelle dura) del veterano argentino José Celestino Campusano giunto al suo tredicesimo lungometraggio. Il tema è quello degli abusi sui minori nei collegi cattolici e del coming out del figlio di un possidente terriero. Nei dintorni di Buenos Aires, tra la cittá e il mondo rurale, Ariel, adolescente abusato nell’infanzia da un sacerdote, si sente abbandonato quando questi gli dice di dover troncare la loro relazione. Per quanto vittima, il giovane ritiene che l’omosessualitá faccia parte della sua natura, e chiuso il capitolo col sacerdote, seduce un contadino che lavora nella fattoria del padre. E quando questi viene cacciato, si mette con un giovanotto che vive in clandestinitá. Sostenuto dalla sorella che capisce le sue scelte, ma gli consiglia di muoversi con le dovute attenzioni, Ariel vuole agire alla luce del sole. Dinanzi all’aut aut del padre: o eterosessuale o fuori dai piedi, va a vivere col nuovo compagno. Dal materiale per un film drammatico, Campusano ha realizzato una sorta di commedia nella quale anche i momenti più gravi scivolano con leggerezza. L’accusa degli abusi ai prelati, uno ancora giovane e l’altro praticamente pensionato, fa parte del quotidiano: tutti lo sanno, ma nessuno li rimuove. E Ariel, il protagonista vittima di abusi, sorride sempre. Non gli pesa il passato: guarda avanti con ottimismo perché è lieto di accompagnarsi con gli uomini e tutti lo accettano. La scommessa del regista è quella di distruggere l’immagine dell’omosessuale manierato e passivo, per tentare d’imporre quella del gay dichiarato, cosciente e orgoglioso del proprio comportamento. E lo fa con alcuni spunti divertenti: quando il prete anziano durante la passeggiata serale da la benedizione a due vecchie signore, queste lo guardano con rabbia e gli gridano: Va all’inferno, vecchio frocio

Cinema al femminile e di origine nordafricana oggi in concorso al festival. Papicha dell’algerina Mounia Meddour ci porta ad Algeri negli Anni Novanta durante la guerra civile e illustra la lotta di una studentessa per l’emancipazione della donna e dei costumi in un momento di oscurantismo. Nedjima, 18 anni, frequenta l’università, ha talento per disegnare nuovi vestiti e vuole organizzare una sfilata di moda. Alloggiata nell’universitá, di notte supera il filo spinato che circonda l’edificio per recarsi con l’amica Wassila in una discoteca dove vende i suoi modelli. Sorrette dal fondamentalismo arrembante gruppi di fanatiche religiose irrompono nell’universitá per imporre alle donne l’uso obligatorio dell’hijab e sequestrano un professore perché sta insegnando una lingua straniera. Tuttavia Nedjima persiste nella sua attivitá, ma l’eliminazione della sorella, reporter della televisione, le fa capire che ormai si tratta di vita o di morte. Lei che rifiuta di recarsi all’estero perché la vera battaglia si combatte ad Algeri, ha deciso di battersi per affermare in patria ideali di libertá e di emancipazione. E non si arrende neanche quando un’irruzione di donne infuriate distrugge tutti i suoi modelli, le stoffe e gli strumenti di lavoro. La sfilata si fará, all’interno dell’universitá, e le colleghe prenderanno coraggio dalla riuscita dell’iniziativa. Prodotto da Francia, Algeria e Belgio, il film dura 105 minuti e prende spunto da fatti reali, all’inizio degli Anni Novanta, quando Mounia Meddour, allora diciottenne, e la famiglia dovettero riparare in Francia per sfuggire alle persecuzioni dei radicalisti islamici. A Parigi seguí i corsi di regia della Fémis, realizzando poi documentari e cortometraggi. Con Papicha (cos¡ venivano chiamate le ragazze di Algeri) esordisce nel lungometraggio gettando uno sguardo sulla gioventú dell’epoca descrivendo giovanotti strettamente legati alla tradizione, radicaliste assatanate e studentesse alla ricerca della modernitá.
Esordisce nel lungometraggio anche Maryam Touzani, nativa di Tangeri, e con studi universitari a Londra. Autrice di corti premiati in alcuni Festival, e collaboratrice col marito, il regista Nabil Ayouch, nella stesura di sceneggiature, presenta in concorso Adam, storia di due donne. Abla, giovane vedova con una bambina di otto anni, Warda, gestisce una piccola pasticceria casalinga in un vicolo di Casablanca. Lavoratrice, mantiene i contatti essenziali con i fornitori, e aiuta la figlia nello svolgimento dei compiti scolastici. Quando Samia, una giovane incinta bussa alla sua porta alla ricerca di un lavoro e di un tetto, si dice dispiaciuta di non poterla accogliere. La bambina, peró, dimostra molta simpatia per la sconosciuta, e la madre ha problemi di coscienza quando svegliandosi durante la notte scorge la ragazza seduta sui gradini della casa di fronte. Decide di ospitarla per una sola notte, poi non ha cuore per metterla alla porta e le offre ancora un paio di giorni di ospitalità. Alla serietá quasi spartana di Abla si contrappone il carattere gioioso e ottimista di Samia, che tra l’altro è esperta nella preparazione di dolci, offre la sua collaborazione ed entra a far parte della famiglia. E`un momento straordinario per Abla, che incrementa le vendite e che apprende dall’altra un comportamento più aperto cominciando a uscire dal lutto per il marito, scomparso giá da tempo. La vicenda ha una svolta quando Samia partorisce: il bambino è sano e vivace, ma lei si trova davanti al dilemma di allevarlo come un bastardo, o di darlo in adozione a una famiglia che lo allevi come un figlio proprio. Girato totalmente in un interno, (98 minuti) con due attrici accattivanti, Nisrin Erradi e Lubna Azabal, il film procede con lentezza per descrivere il mutato atteggiamento di Abla nei confronti della sconosciuta e il suo riscoprirsi donna giovane e con tutta una nuova vita da costruirsi. Samia non cambia: concreta, ottimista, cosciente che niente le è dovuto, procede con coraggio in un mondo che sa non esserle particolarmente amico.
In concorso anche un terzo film al femminile, la storia di due sorelle nel film del brasiliano Karim Ainouz, La vita invisibile di Euridice Gusmão, film già distribuito in Italia.  

 La 64ª SEMINCI di Valladolid si è chiusa con l’anteprima mondiale di Mestary Cheng (Il maestro Cheng) di Aki Kaurismaki, il regista finlandese che qui si sente a casa sua avendo presentato molti film nelle passate edizioni. Prodotto da Finlandia, Gran Bretagna e Cina, il film narra la visita di un quarantenne cinese col figlio Niu Niu in un villaggio della Lapponia. Cheng sta cercando un certo Fongton, che nessuno conosce, e per la notte accetta l’ospitalità di Sirkka, giovane donna che gestisce l’unico posto ristoro, perché nel villaggio non ci sono alberghi nè pensioni. Si dá il caso che il giorno dopo si presenti un gruppo di turisti cinesi, e che Cheng riveli a Sirkka di essere un esperto cuoco di Shanghai, disposto a cucinare gratis per i suoi compatrioti. E`l’inizio di una collaborazione che farà cambiare regime anche agli anziani frequentatori, e che permette a Cheng di prolungare il suo soggiorno. Vedovo, venuto in Finlandia anche per seppellire le ceneri della moglie, Cheng scopre che Sirkka è stata abbandonata dal marito, scappato con un’altra donna. Prima collaborazione di Aki Kaurismaki con la Cina, si serve di un famoso attore teatrale cinese, Chu Pak Hong, in coppia con Anna Maija Tuokko, per dar vita a una storia sentimentale ambientata d’estate su laghi e boschi che suggeriscono una quiete infinita in contrasto con la caotica vita di una metropoli come Shanghai. E parla di distensione e di incontri tra differenti culture mettendo in evidenza i benefici che ne derivano. Dura circa due ore, un tempo forse troppo dilatato per mostrare le qualità della cucina cinese e per concludere un idillio annunciato.
Prima di trascrivere i premi, merita un accenno il film di animazione Buñuel en el labirinto de las tortugas (Buñuel nel labirinto delle tartarughe) di Salvador Simó. Dura 80 minuti e narra le vicende che permisero al regista di girare il secondo film Las Hurdes. Tierra sin pan. Dopo la presentazione a Parigi del suo primo film, L’age d’or, grazie al sostegno dell’amico scultore Ramón Acin, che investì il denaro di un biglietto vincente della lotteria nazionale, realizzò nel 1930 il film documentario sul desolato villaggio aragonese. Acin e  moglie vennero poi fucilati per anarchismo dalla dittatura franchista, e tutto questo è raccontato con disegni originali sotto la direzione dell’animatore Manuel Galiana, che mette anche a fuoco il carattere cupo di Buñuel e alcuni passaggi della sua infanzia sui rapporti col padre.
Prima dei premi, i nomi dei membri della giuria internazionale presieduta dalla famosa regista andalusa Josefina Molina (Cordoba 1936), dal produttore e fotografo francese Thierry Forte, dal presidente del Festival dell’Avana Iván Giroud, dalla scrittrice madrilena Rosa Montero, e dai registi Philippe Lesage (Canada), Keti Machavariani (Georgia), Dilip Mehta (India).
Spiga d`oro al miglior film: Öndög (L’uovo del dinosauro) del regista cinese Wang Quan’an. Il film ha vinto anche il premio di forografia a Aymerick Pilarski.
Spiga d’argento a La vita invisibile di Euridice Gusmão del regista brasiliano Karim Ainouz. Il film ha ottenuto anche il premio d’interpretazione femminile, ex aequo, a Julia Stockler e Carol Duarte, e il Premio della critica internazionale (Fipresci). 
Miglior attore Levan Gelbakhiani del film georgiano Da cven vicekvet (Allora balliamo) di Levan Akin.
Premio Ribera del Duero per la migliore regia al regista islandese Rúnar Rúnarsson per Bergmál (Eco).
Premio Pilar Miró al regista della migliore opera prima all’algerina Mouina Meddour per Papicha.
Il film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, Le jeune Ahmed (L’età giovane), ha ottenuto il premio di sceneggiatura e quello di montaggio a Marie-Hélène Dozo e Tristan Meunier.
Miglior cortometraggio: The Phisics of Sorrow (Fisica della tristezza) del grafico bulgaro Theodore Ushev in una produzione canadese.
Miglior lungometraggio della sezione Punto de encuentro, Bik Eneich (Un figlio) del regista svizzero/portoghese Mehdi M. Barsaoui. Miglior lungometraggio della sezione Tiempo de Historia, The Cave (La grotta) del siriano Feras Fayyad, che ha vinto anche il premio del pubblico per il miglior documentario. Premio del pubblico al miglior lungometraggio di finzione a Papicha.