Festival di Istanbul 2005

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Festival di Istanbul 2005
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Tante storie, tanta solitudine

sito ufficiale: http://www.iksv.org/film/english/
ImageIl Festival Internazionale del Film di Istanbul è una delle maggiori manifestazioni cinematografiche europee. Lo ha confermato l’edizione di quest’anno, ventiquattresima della serie, che ha allineato una dozzina di film in qualche modo legati al mondo dell’arte, una nutrita serie di retrospettive e omaggi, un’affollata sezione informativa e un’interessante esposizione delle più recenti produzioni turche. In quest’ultima sezione hanno brillato alcuni titoli di notevole spessore espressivo.
Le maggiori attenzioni sono andate a Meleğin Dűşűşű (L’angelo caduto) di Semīh Kaplanoğlu, liquidato un po’ troppo affettatamente nel rendiconto del Forum di Berlino e che, invece, merita attenzione se non altro per essere opera direttamente legata al nuovo filone del cinema turco, quello aperto da autori come Nuri Bilge Ceylan (Mays sikintisi – Nubi di maggio – 1999; Uzak – Distante – 2002) e Zeki Demirkubuz (Masumiyet – Innocenza – 1997; Üçüncü sayfa – Terza pagina – 1999). Un cinema che rifiuta gli eventi in favore della radiografia delle reazioni dei personaggi, non espone gli atti, ma le loro conseguenze psicologiche.
Anlat Istanbul (Racconti di Istanbul) muove su una strada del tutto diversa. Vi hanno messo mano: Selim Demirdelen, Kudret Sabanci, Yücel Yolcu, Őműr Atay e Űmit Űnal, autore dei racconti da cui nasce il film. Sono cinque storie ciascuna delle quali s’ispira liberamente ad una favola famosa; si passa da Cenerentola a La bella addormentata nel bosco, da Biancaneve e i sette nani a Il pifferaio magico. Queste storie, ciascuna diretta da uno dei registi citati, finisce con l’intersecare le altre con un intreccio che usa lo spazio e il tempo. È un tessuto dalla trama complicata che, tuttavia, si svolge senza smagliature, anche se paga il prezzo di alcune prevedibilità narrative. Sono racconti di taglio assai diverso: si passa dal marito che scopre il tradimento della moglie al curdo sballottato in una città di cui non conosce neppure la lingua, dal transessuale che tenta di uscire dal giro di prostituzione alla moglie del boss mafioso che fa uccidere il marito dall’amante, alla ragazza – occasionale corriere della droga – che tenta di ritornare in Germania per iniziate una nuova vita. Ciò che emerge è parte del panorama umano di una grande città, con le sue miserie, grandezze, delitti e generosità.
Il dramma della guerra con i curdi continua a condizionare e insanguinare la realtà politica e morale turca. Sino a qualche anno or sono era impensabile parlare e raccontare questa immane tragedia causa una pesante censura e anche ora i documenti ufficiali ignorano la parola curdo obbligatoriamente sostituita con quella di turco del sud. Va valutata in questo quadro l’importanza di un film come Yazi tura (Questione di fortuna), opera prima del noto attore Uğur Yűcel. In balia della sorte sono due veterani della guerra in Kurdistan, un tempo compagni d’armi, uno dei quali ha perso una gamba in un’azione e l’altro gli ha salvato la vita. Le cose sono andate così: durante un rastrellamento la pattuglia di cui i due facevano parte ha avuto uno scontro a fuoco con un gruppo di guerriglieri e li ha uccisi. Rovistando fra i documenti dei morti uno dei due ha scoperto di aver ammazzato un’ex compagna di scuola, è quasi impazzito, ha iniziato a sparare a caso ed è saltato su una mina, perdendo una gamba. L’altro lo ha trascinato via dal campo minato salvandogli la vita. Ora l’uno è ritornato al villaggio natale e sopravvive con la magra pensione da invalido, covando una sorda rabbia che lo isola e lo porta a litigare con tutti. Menomato nel corpo e nella mente finirà col suicidarsi. L’altro naviga ai bordi della piccola delinquenza, vuole aprire un gazebo di ristoro in una stazione, ma si scontra con criminali più potenti di lui. A mandarlo in crisi sarà l'incontro con un suo fratello, che non ha mai conosciuto, omosessuale e di nazionalità greca. É un travaglio morale che lo sconvolge sino a spingerlo all’omicidio. Il film ha toni da melodramma social - rusticano, un filone molto frequentato, in passato, dal cinema turco, ma vi aggiunge un apprezzabile spirito di denuncia sulla tragica stupidità della guerra curda.
Yolda (Percorso) d’Erden Kiral è una coproduzione fra Turchia e Bulgaria e rappresenta la realizzazione, a lungo meditata, di un progetto cui il regista ha pensato oltre dieci anni fa. Lo spunto ha vari agganci con le realtà, ma non minori dosi d’invenzione. I protagonisti sono due: il famoso regista Yilmaz Gűney, colto in un lungo trasferimento da una prigione aperta ad una ben più rigida, e un giovane regista, infuriato perché è stata bloccata la realizzazione di uno dei film dal carcere, che caratterizza la parte finale della filmografia gunneiana, cui stava lavorando. I giorni sono quelli successivi al colpo di stato del 1980, che istaurò una giunta militare rimasta al potere sino al 1982. Il famoso autore - attore era in prigione sin dal 1974, condannato per l’uccisione di un giudice. Durante la detenzione subì altre condanne, tutte per motivi ideologici. Una sua lettera in difesa dei diritti del popolo curdo, pubblicata da una rivista francese, gli procurò, ad esempio, un rinvio a giudizio per attentato all’unità nazionale, reato che prevede la pena di morte. L’avvento al potere dei militari e il trasferimento dal luogo di detenzione, relativamente privilegiato, in cui era stato ristretto, lo convinsero che si stesse cercando di ucciderlo. Per questo decise di fuggire, approfittando di una licenza - premio per il Ramadan. Andò, prima, in Svizzera, dove finì il lavoro di montaggio di Yol (La via, 1982, Palma d’oro al Festival di Cannes), poi in Francia, ove ottenne lo stato di rifugiato politico. Bisogna ricordare queste cose per comprendere il protagonista del film, un intellettuale fiero, ma preda di una grande paura, un uomo ancora autorevole, ma che presagisce l’avvicinarsi della fine. Si aggiunga che Erden Kiral, allora quasi esordiente (aveva firmato due film: Kanal – Il canale, 1978, e Bereketli Topraklar Üzerinde – Nelle terre fertili, 1980) era stato fra i primi presi in considerazione da Yilmaz Gűney quale suo braccio operativo durante la detenzione. Dopo una breve sperimentazione, l’accordo naufragò a causa delle differenze di sensibilità stilistica fra i due autori. Ritornando a Yolda vi si raccontano le tappe del lungo trasferimento di due auto: una con il prigioniero e i suoi carcerieri, l’altra con la moglie, il regista licenziato e l’autista - collaboratore del detenuto. Il motivo conduttore è quello dei limiti della libertà, anche di quella creativa, ma la cosa appare più detta che cinematograficamente rappresentata. Su questo versante il film non convince del tutto, mentre pare assai apprezzabile su quello della costruzione del carattere principale.
Rimarrebbe da dire della competizione internazionale, valutata da una giuria presieduta da Jane Campion e a cui ha partecipato anche Valentina Cervi. Tuttavia, della maggior parte dei tredici film in concorso, fra cui i due premi ufficiali (La femme de Gilles – La donna di Gilles – di Frédéric Fonteyne, Kohi Jikou – Café Lumière – di Hou Hsiao-hsien) e quello scelto dai giurati della critica (Innocence – Innocenza – di Lucile Hadzihalilovic), si è già parlato da Venezia e San Sebastian. Gli altri non hanno offerto motivi di grande interesse con le sole, timide, eccezioni di Lila dit ça (Lila ha detto), opera seconda del cameraman di Quentin Tarantino, il franco – libanese Ziad Doueiri, Scandal - Joseon namnyeo sangyeoljisa (Scandalo segreto) del sudcoreano Lee Jae-yong e In My Father's Den (Nella tana di mio padre) del neozelandese Brad McGann.
Il primo deriva da un libro di successo di Chimo e s’inserisce nel filone che il cinema francese dedica ai problemi dell’emigrazione di seconda generazione. L’ambiente è quello della periferia degradata di una grande città, un ghetto arabo in cui vive un ragazzo con ambizioni di scrittore e una giovane spregiudicata a parole, ma che ha tratto da rotocalchi e libri erotici le esperienze che dice di aver vissuto. È un panorama popolato da bande di giovinastri, intriso di una violenza sistematica che considera lo stupro di gruppo una risposta normale ad uno stato d’emarginazione. Il punto focale è la condizione d’estraneità sociale di questi giovani, il loro rinchiudersi in branchi che vivono tutto ciò che li circonda come un pericolo o una preda. Per questo quando il protagonista tenta di uscire dal cerchio, che lui stesso a contribuito a costruire, allacciando una relazione con una ragazza esterna al gruppo è aggredito e considerato un traditore. La donna stessa, del resto, tenta di evadere dalla prigione individuale in cui è rinchiusa, inventandosi un mondo di piacere e miserabile deboscia del tutto omologo alla qualità della comunicazione che la aggredisce e condiziona. Un buon film che non aggiunge molto a quanto già sappiamo, ma lo fa con grazia e lucidità.
Scandalo segreto è un curioso adattamento, in panni orientali, de Le relazioni pericolose (1782) di Pierre Choderlos de Laclos (1741 – 1803). Il Gioco terribile fra Madame de Merteuil e il suo ex-amante Valmont diventa, in questo film, un dramma in costume ambientato nella Corea del 18mo secolo. Al centro c'è la relazione che lega, in modo ambiguo e violento, la signora Cho al potente cugino Cho-won. A lui offre il proprio corpo in cambio della seduzione della giovane cortigiana sedicenne, amante di suo marito. Vi è un cambio sostanziale rispetto al testo di partenza: dal gioco del piacere fine a se stesso, a quello della vendetta che passa attraverso i talami. Il film è molto ben costruito, preciso nella costruzione, raffinato nelle immagini. Un piacevole esercizio di stile il cui fulcro, più che nell’originalità della storia sta nella raffinatezza del linguaggio.
Nella tana di mio padre è tratto da un libro, pubblicato nel 1972, dello scrittore neozelandese Maurice Gee (1931). L’aspetto esteriore è quello di un dramma psicologico – giudiziario che parte dal sospetto di pedofilia nei confronti di un famoso fotografo di guerra che ritorna, disgustato dalla molta violenza a cui ha assistito, al villaggio natale per sistemare l’eredità paterna. Qui incontra la sua vecchia fidanzata, ora madre con figlia. Sarà proprio l’amicizia con la ragazzina che, in realtà, è sua figlia naturale, a scatenare l’accusa di pedofilia e le violente reazioni dei concittadini. Il film lascia crescere un clima di suspense che funziona da liquido di contrasto per far emergere l’ipocrisia, il rancore, la chiusura culturale e morale che allignano nella piccola comunità. Ancora una volta un’opera non originale, ma accurata nella costruzione.