Festival di Setubal 2006 - Pagina 3

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Festival di Setubal 2006
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Die Bluthochzeit (Il banchetto di nozze) del tedesco Dominique Deruddere racconta di un’allegra comitiva, capitanata da un riccastro supponente e arrogante, che si appresta ad un banchetto di nozze, quando, per un banale incidente, la festa si trasforma in uno scontro fra gli ospiti e il cuoco, con tanto di assedio e fucilate. Dovrebbe essere una metafora sulla futilità della ferocia che attraversa la nostra società, ma tutto resta a livello di semplice intenzione con gli spunti farseschi che fanno premio su quelli tragici e simbolici. Non sorprende che abbia ottenuto il premio del pubblico.
I due titoli più curiosi in cartellone sono venuti dal Cile e dal Vietnam. En la cama (A letto) di Matías Bize è uno straordinario esercizio di stile e d’analisi psicologica. Durante un tempo, vicino a quello reale, la macchina da presa pedina una coppia occasionale che fa all’amore, chiacchiera, si spia. Lo scenario è quello di una camera d’albergo e la regia mostra un grande equilibrio nel contrappuntare sequenze erotiche – mai morbose o compiacenti – con un dialogo acuto e ricco di attenzioni alla psicologia dei personaggi.
Hat mua roi bao lau (La sposa del fuoco) dei vietnamiti Minh Phuong Doan e Thanh Nghia Doan ha ricevuto una menzione speciale all’ultimo festival di Rotterdam ed è stato presentato in molte altre rassegne. E’ un film affascinante sia per il rapporto che stabilisce fra vicenda e paesaggio, sia per la poesia che aleggia in tutta l’opera. La storia è racconta in flash back e narra di una donna, cacciata dal villaggio natale perché incinta senza essere sposata, che finisce contesa da due fratelli. E’ un tipo di cinema dallo stile un po’ vecchio, ma costruito con raffinatezza e misura.
Il festival ha sempre prestato attenzione al cinema indipendente americano di cui ha presentato, negli anni, opere di grande interesse. Possiamo anzi affermare che, con il passare del tempo e il rafforzarsi del prestigio del Sundance Film Festival, i numero dei titoli rilevanti è venuto progressivamente infittendosi. Citiamo Man Push Cart (L’uomo che spinge un carrello) dell’americano, d’origine pakistana, Ramin Bahrani già coronato ai festival di Salonicco (premio del pubblico) e Londra (premio FIPRESCI).
Nella sezione più specificamente riservata ai film USA indipendenti ha destato molto interesse The War Within (La guerra interna) di Joseph Castelo in cui si affronta il problema del terrorismo descrivendo, con lucidità e senza estremismi, sia le ragioni di chi vi arriva provenendo da una terribile esperienza di torture e repressione, sia chi, ormai integrato nella società americana, vi si oppone con sdegno. I due volti di questa medaglia sono rappresentati da Hassan, un militante islamico pakistano rapito e torturato, ed ora arrivato a New York con il compito di organizzare un attentato suicida, e da Sayeed, l’amico inconsapevole che lo ospita e che si è costruito una pozione nella società americana. Il finale sarà tragico, con la distruzione di entrambi: uno suicida in mezzo ai viaggiatori della Grand Central Station, l’altro arrestato dall’FBI come complice. I due personaggi sono costruiti con cura e senza schematismi, le ragioni della follia terrorista ci sono tutte, ma la condanna dell’uccisione di innocenti è altrettanto forte. La struttura narrativa oscilla fra quelle del film d’azione e l’analisi psicologica, ma questo non inquina la linearità complessiva dell’opera.
Decisamente singolare è la proposta narrativa portata avanti da One Last Thing... (Un’ultima cosa…) di Alex Steyermark in cui tutto ruota attorno all’ultimo desiderio – passare un fine settimana con una top model – di un ragazzo, ammalato terminale di leucemia. Il tono e quasi da commedia, anche se il tema è tutt’altro che lieto e il finale si lascia perdonare il tono eccessivamente sentimentale con un bel ritratto di questo ragazzo che sa di dover morirete da lì a poche ore.
Del tutto diverso il ritmo impresso da Selim a Sweet Land (Dolce terra). Qui siamo decisamente dalla parti del cinema epico con la storia di un’immigrata tedesca che, negli anni venti, arriva negli Stati Uniti senza conoscere una parola d’inglese. Viene qui per sposare un americano, d’origine teutonica, che l’ha maritata per corrispondenza. La Prima Guerra Mondiale è finita da poco e l’ambiente a cui va incontro è più che ostile nei suoi confronti. Con ferrea volontà e l’appoggio cocciuto del marito, riesce a superare ogni ostacolo, guadagnarsi la stima della comunità e costruire un’azienda solida. Anche questa volta il discorso è costruito in flash back, un modo di narrare che sembra diventato il segno distintivo del cinema dei nostri tempi.