Festival di Setubal 2006 - Pagina 2

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Festival di Setubal 2006
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Restiamo in Finlandia con Äideistä parhain (Mia madre, 2005) di Klaus Härö, un melodramma a forti tinte, di quelli che fanno piangere le signore, anche quelle tendenzialmente coriacee. Siamo nei mesi della guerra russo – finlandese (novembre 1939 – marzo 1940), quando i finnici evacuano donne e bambini, in particolare gli orfani dei soldati uccisi in battaglia. Tale è il piccolo Eero, un ragazzino di nove anni che capita in una fattoria svedese dove abitata Signe, una giovane donna che ha appena perso una figlia. I rapporti fra lei e il piccolo sono subito difficili. Lui sogna continuamente di ritornare dalla madre naturale, Kirsti, e tenta persino la fuga. Lentamente il rapporto si consolida, le incomprensioni sono superate, al punto che, quando Kirsti rivuole indietro il figlio per Signe è un dolore simile ad una seconda perdita. La storia è raccontata in flash back evocati da Eero che, ormai anziano, è ritornato in Svezia per il funerale di Signe. Lo scenario è quello di un autentico dramma di guerra: furono ben 80 mila i bambini evacuati nei paesi scandinavi dall’inizio di quella guerra e 70 mila di loro furono accolti dalla Svezia. Il film prende le mosse da una racconto di Heikki Hietamies e usa abilmente e senza remore gli ingredienti del cinema strappalacrime, ma lo fa con dignità e onestà pregevoli. Gli interpreti della madre adottiva (Maria Lundqvist) e del piccolo orfano (Topi Majaniemi) hanno vinto i premi per le migliori interpretazioni femminile e maschile del festival.
Un altro ragazzino è protagonista di Zozo dello svedese Josef Fares. In questo caso lo scenario è quello della guerra civile libanese (1975-1990) e del flusso d’esiliati che ha causato: più di un terzo della popolazione. La famiglia del piccolo sta per partire per gli Stati Uniti, quando un corpo di mortaio uccide tutti, lasciando in vita solo il ragazzo. Alcuni anno dopo, lo ritroviamo in Svezia ove subisce il razzismo dei compagni di scuola. Il film ha un forte taglio civile ed è nettamente diviso in due, tanto che sembra l’assemblaggio di due opere distinte. Un difetto che non ne compromette del tutto il bilancio.
En Soap (Una Soap Opera) della danese Pernille Fischer Christensen è il classico testo per attori che poco si cura della verosimiglianza della storia, ma offre agli interpreti importanti occasioni per mostrare la loro arte. E’ quasi un film da camera, girato in set limitati – non più di tre – che racconta la storia d’amore fra una donna che fugge dal compagno manesco e un transessuale nell’attesa di mutare sesso chirurgicamente. Contrasti, diffidenze, scontri aspri, tutto si stempera in una caldo rapporto di solidarietà e comprensione che non tarda a trasformarsi in amore a tutto tondo con il trans che, forse, muterà di gusti. Il film è girato molto bene, tenuto in mano con fermezza dagli interpreti, ma non riesce a nascondere del tutto un certo gusto di già visto.
Drømmen (Noi vinceremo, 2006) di Niels Arden Oplev conferma la sensibilità del cinema di Copenhagen in direzione del filone democratico. Lo fa raccontando la lotta di un ragazzino contro un preside violento e conformista. Siamo nel bel messo dei mitici anni sessantotto e ogni atto minimamente anticonformista – dalla lunghezza dei capelli, alla musica del Beatles – desta scandalo e suscita le ire dei benpensanti. Ovvio che, al canto del mitico (Noi vinceremo, 2006) di Niels Arden Oplev conferma la sensibilità del cinema di Copenhagen in direzione del filone democratico. Lo fa raccontando la lotta di un ragazzino contro un preside violento e conformista. Siamo nel bel messo dei mitici anni sessantotto e ogni atto minimamente anticonformista – dalla lunghezza dei capelli, alla musica del Beatles – desta scandalo e suscita le ire dei benpensanti. Ovvio che, al canto del mitico We Shall Overcame, i giovani si ribellino avviandosi ad una profonda rivoluzione, se non della politica, sicuramente nel costume e nei rapporti interpersonali. E’ un film corretto e democratico, ma nulla più. Addentriamoci nel panorama europeo con alcuni titoli variamente interessanti.
Love + Hate (Amore + Odio, 2005) dell’inglese Dominic Savane ritorna sul tema del razzismo con la storia di una ragazza pakistana che s’innamora di un giovane inglese. La famiglia di lei e i pregiudizi di lui intralciano la relazione rischiando di sfociare nel dramma. Una previdenziale fuga a Londra aprirà, forse, nuovi orizzonti. E’ una nuova testimonianza della sensibilità civile del cinema britannico e dell’influenza esercitata da Ken Loach su molti autori.
Komornik (L’esattore) del polacco Feliks Falk conferma l’interesse dei cineasti che operano nei paesi ex – socialisti per la denuncia dei guasti e degli sconquassi morali causati dall’arrivo di un capitalismo selvaggio che ha sostituito le maschere ideologiche con la corsa alla ricchezza. Anche in questo caso la condanna morale ha più forza dei valori stilistici. La storia ha al centro un esattore giudiziario che diventa quasi un santo e rinuncia ad ogni avere.
Gli orrori della guerra che ha portato alla dissoluzione dell’ex - Jugoslavia sono stati spesso oggetto di rappresentazione da parte delle cinematografie dei paesi nati da quella diaspora. E’ ora la volta del bosniaco Ahmed Imamovic che, in Go West (Andare a Occidente), racconta la storia, non originalissima, dell’uomo che si finge donna per sfuggire alla guerra. Milan, uno studente serbo, è l’amante di Kenan, un violoncellista mussulmano. La loro relazione, già impossibile nel quadro della guerra etica che contrappone Belgrado a Sarajevo, è resa ancor più drammatica dalla relazione omosessuale che lega i due. Gioco forza vestire Kenan in panni muliebri e tentare di espatriare. Fortunosamente la coppia raggiunge il villaggio natale di Milan, il cui padre organizza una cerimonia nuziale vera e propria. Gli eventi precipitano, il marito è chiamato alle armi e muore in guerra, la moglie, anche se sessualmente svelata, riesce ad andare all’estero. Il film utilizza molti elementi alla Kusturica e non brilla per originalità, giocando le carte migliori su un tono ironico e amaro. E' un taglio che non evita del tutto le gigionerie di mestiere, anche per colpa della scarsa direzione nei confronti del divo Rade Serbedzija, qui impegnato nella parte del padre tollerante o doloroso.