Il cinema di Theo Anghelopoulos fra metafora e surrealismo sociale. - Pagina 2

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Il cinema di Theo Anghelopoulos fra metafora e surrealismo sociale.
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Il passo sospeso della cicogna
Il legame con i due pionieri della cinematografia balcanica è utilizzato da Theo Anghelopoulos anche per sviluppare una dichiarazione d’amore al cinema che considera importante con le citazioni di The Birth of a Nation (Nascita di una nazione, 1915) di David W. Griffith, Dr. Mabuse, der Spieler - Ein Bild der Zeit (Il dottor Mabuse, 1922) e Metropolis (1927) di Fritz Lang, Campanadas a medianoche (Falstaff, 1966) di Orson Welles, Persona (1966) di Ingmar Bergman. Una perorazione che si accompagna all’orrore verso la guerra, un mostro che soffoca uno sguardo imprigionato che vuole vedere la luce; ed è sempre la violenza bellica a causare un vero e proprio rovesciamento del mondo, rendendo magnifica una giornata nebbiosa che priva i cecchini dei loro bersagli e consente all’arte – la musica, il teatro – di rinascere fra le macerie. Una pausa ingannatrice che nasconde altro orrore, descritto con la bellezza e la forza di un grande quadro impressionista: Harvey Keitel che si dispera nelle brume vicino al cadavere del cinetecario. Ne Il passo sospeso della cicogna (To mteoro vima tou pelargou, 1991), incontriamo una della sequenze più indicative dell’amore verso il simbolico - surreale di questo cineasta: il matrimonio celebrato con gli sposi collocati sulle sponde opposte del fiume Evros. E’ l’immagine, di grande efficacia, delle lacerazioni causate da frontiere innaturali che impongono separazioni assurde. In L’eternità e un giorno (Mia eoniotita kai mia mera, 1998), uno dei testi esistenziali – metaforici più ricchi, simbolismo e realismo si danno la mano.
L'eternità e un giorno
Qui la contrapposizione fra il poeta, creativamente e ideologicamente compiuto, e il bambino, che viene dall’orrore, ha il senso del confronto fra un’esperienza così matura da essere quasi arrivata al ripiegamento su se stessa e un’affacciarsi al mondo senza mezzi, soprattutto culturali, venendo da una realtà che non è neppure possibile comunicare (le lingue diverse parlate dai due personaggi). In questo film abbiamo anche un esempio delle sequenze riassuntivo – simbolico – metaforiche che tanto caratterizzano il lavoro del cineasta. E’ il lungo brano del viaggio in autobus, un percorso che inizia e finisce nello stesso punto, quasi non sia mai avvenuto. Qui la componente realistica è molto forte: il mezzo è proprio uno di quelli delle linee urbane di Salonicco, il fattorino conta le monete, compila moduli e annuncia le fermate, i viaggiatori sono, almeno all’inizio, del tutto normali. Con il procedere del racconto la salita e discesa delle persone – dal giovane manifestante con la bandiera rossa, alla coppia di fidanzati, al trio che suona il tema della colonna sonora del film, al poeta in abiti ottocenteschi – sintetizza un itinerario esistenziale e morale che vede nell’arte il lievito di ogni affrancamento umano. Da notare il giovane che, parlando d’amore, dice alla compagna: ci vogliono forme nuove. E’ una frase normale, ma anche il manifesto di un’urgenza di rinnovamento che, in quel momento, il regista vive in modo particolare. Ne La sorgente del fiume (To lividori pou dakryzei, 2004), primo episodio della trilogia riassuntiva dell’ultimo secolo di storia cui Theo Anghelopoulos sta lavorando, ritroviamo sequenze indicative di questa tendenza al surrealismo sociale. Il riferimento è alle immagini dell’albero ricoperto di carogne di animali cui approda il lungo piano - sequenza sulle terre alluvionate. Identica portata hanno le immagini d’apertura, con i profughi provenienti da Odessa che approdano alla foce del fiume. In entrambi i casi le possibilità di letture multiple arricchiscono la superficie realistica delle immagini moltiplicandone i significati. Questo complesso stilistico il regista si è spesso avvalso, 6 titoli su 12, di quel realismo fantastico che segna l’opera di Tonino Guerra (n. 1920). Si potrebbe sostenete, persino, che i film di questo autore formano una sorta di ponte fantastico – poetico fra la brumosa terra padana e le sassose montagne elleniche. Non a caso il cineasta ha quasi sempre ambientato i sui film in una Grecia montana, invernale, innevata, nebbiosa, giusto il contrario dell’immagine assolata, ridente, tipica degli stereotipi turistici.
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La sorgente del fiume
E' possibile scorgere, anche in questo, il segno di una voglia di rovesciamento del senso che si sposa armonicamente con la tendenza di fondo del lavoro creativo dell’autore. Pensiamo, ad esempio, al lungometraggio d’esordio, Ricostruzione di un delitto (Anaparastasi, 1970), e lasciamo la parola allo stesso regista:
Il film è strutturato su tre ricostruzioni. La prima sorregge il punto di vista della polizia, che vuole scoprire chi ha commesso l’omicidio. La seconda ha al centro i giornalisti, a cui interessa soprattutto realizzare uno scoop. La terza è la mia, quella di un cineasta che si trova davanti ad una storia con molti punti oscuri e altrettanti vuoti narrativi. Il tentativo è quello di riempire questi vuoti. (…) Quasi tutto il film è concentrato nell’ultima inquadratura, ove la macchina da presa coglie solo l’esteriorità delle cose: una donna aspetta avanti a casa, poi entra. Arriva il suo amante, si muove veloce e anche lui entra. Poco dopo compare il marito e l’inquadratura rimane fissa. Nell’intervallo fra un’entrata e un’altra c’è un vuoto di narrazione, sentiamo i rumori, qualche voce lontana, vediamo le pecore sulla collina, ma non c’è azione. Il marito chiama la donna da fuori, ma lei non lo sente, allora lui entra in casa. Dopo un po’ arrivano i figli che si mettono a giocare nel cortile. Improvvisamente dalla porta esce l’amante, attraversa l’inquadratura e scompare. (…) Esce anche la donna, chiama i figli, rientra, chiude la porta. Durante questo periodo è stato commesso un delitto. Noi non sappiamo chi è il colpevole, sappiamo solo che un uomo è entrato, un altro è uscito, qualcuno ha invocato un nome, i ragazzi stavano giocando sull’aia sin che la madre li ha fatti rientrare e ha chiuso la porta. Nella casa è stato commesso un omicidio, ma non abbiamo visto chi è l’assassino.
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Lo sguardo di Ulisse
La descrizione di questa sequenza ci dice molte cose. Prima di tutto segnala come, per il regista, la realtà fotografica altro non è se non un’apparenza che nasconde, senza svelarla, una verità, in questo senso non è un caso che l’intera vicenda de Lo sguardo di Ulisse si basi sulla liberazione di uno sguardo imprigionato che la guerra mantiene incatenato. Subito, poi, i silenzi e le immagini, ferme o quasi, che hanno un peso ancor maggiore delle azioni. E’ questa una caratteristica stilistica che il cineasta trae dalla tragedia greca classica in cui, come lui stesso ricorda, non esiste omicidio commesso sulla scena, ma solo la sua eco indiretta. Ne abbiamo prova in due sequenze: quella dello stupro in Paesaggio nella nebbia e il massacro del cinetecario e dei suoi familiari in Lo sguardo di Ulisse. Nel primo film il camionista trascina la bambina nel retro del camion e noi vediamo, per lunghi secondi, solo il telone chiuso, cogliamo un attimo di speranza, quando, sulla sinistra del fotogramma, arriva un’auto che si ferma, ma riparte subito. Nulla c’è mostrato dell’orribile violenza: possiamo cogliere solo il prima (la ragazzina trascinata a forza sotto il tendone) e il dopo (la mano insanguinata della vittima), non il durante. I collegamenti, il giudizio, lo svelamento dei rapporti spetta a noi, solo a noi. Allo stesso modo nel film sulla ricerca delle tre bobine inedite del Fratelli Manakias, lo sterminio del conservatore della cineteca, di sua figlia e dei familiari avviene nella nebbia, lontano dai nostri occhi. Sentiamo solo le voci, gli spari e cogliamo la progressiva disperazione sul volto di Harvey Keitel.