Il cinema di Theo Anghelopoulos fra metafora e surrealismo sociale.

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Il cinema di Theo Anghelopoulos fra metafora e surrealismo sociale.
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Theo Angelopoulos
Gli studiosi del lavoro di Theo Anghelopoulos sono concordi nel metterne in risalto la componente metaforica del suo cinema.
In tutti i suoi film ci sono gruppi di sequenze che, raccontando una precisa storia, rimandano a situazioni e ad osservazioni di portata generale. In altre parole, siamo alla presenza di metafore, spesso costruite su basi che potremmo definire di surrealismo sociale. E’ uno stile che assembla, in modo originale, materiali realistici in modo da formare insiemi che assumono un senso del tutto indipendente da quello dei singoli elementi, raggiungendo valori sociali e politici nettamente definiti. E’ una scelta espressiva che coinvolge anche i tempi fisici della narrazione, come ben esemplificano le numerose sequenze in cui l’epoca cambia con lo svilupparsi della sequenza. Partiamo, ad esempi, da un’immagine del dopoguerra e, con il procedere del movimento di macchina, ci troviamo nel corso della seconda guerra mondiale (La recita -O thiasos, 1975).
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Alessandro il Grande
In tempi di dittatura, come quelli in cui furono realizzati questo film e Giorni del ‘36 (Meres tu ’36, 1972), entrambi progettati e girati negli anni della giunta militare (1967 -1977), questo modo di raccontare offre anche un canale quasi obbligatorio per dire cose altrimenti destinate a cadere sotto le forbici della censura. Il gusto per la metafora è una costante dell’opera di Theo Angelopoulos; in Alessandro il Grande (Megaleksandros, 1980), ad esempio, consente citazioni che rimandano a Lenin, alla Guerra di Spagna a Che Guevara oltre che, ovviamente, alla storia del conquistatore macedone. In Paesaggio nella nebbia (Topio stin omichli, 1988) la grande mano che vola sopra il mare di Salonicco, è un’immagine reale, ma, allo stesso tempo, è leggibile sia come omaggio al cinema di Federico Fellini (il Cristo aviotrasportato con cui si apre La dolce vita, 1960), sia come riferimento ad una condizione umana ove il gigantismo delle cose finisce col sovrastare la vita stessa. Questo film è particolarmente ricco di inquietudini politiche che incarnano una sorta di presentimento dei crolli ideologici e politici che avverranno l’anno seguente. In quest’opera c'è anche una lunga sequenza in cui la macchina da presa segue i due piccoli protagonisti che, arrivati ad un incrocio, incontrano una sposa piangente e, poco dopo, un cavallo morente trainato da un trattore, quindi il ritorno festoso del corteo nuziale, sposa compresa. È un brano segnato dalla coabitazione - contrasto fra gioia e dolore, lutto e festa. La sposa, la strada innevata, il cavallo morente sono veri, ma, nello stesso, tempo simboleggiano altro, offrono chiavi di lettura che superano la superficie fotografata. In questo film ritroviamo momenti surreali nella sequenza in cui l’avventore di un bar cattura un pollo entrato nella sala fra lo stupore degli atanti. Analoga osservazione per la scala a chiocciola che compare sullo sfondo del brano in riva al mare: un manufatto privo di senso che poggia sulla sabbia e finisce nel vuoto.
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Paesaggio nella nebbia
Notiamo di passata che i cortei nuziali, cui il regista dedicherà una sequenza memorabile ne Lo sguardo di Ulisse (To vlemma tou Odissea, 1995), l’acqua e gli uomini sospesi, vestiti con le cerate gialle utilizzate dagli operai elettrici, costituiscono alcuni fra gli stilemi cari a questo autore. Sempre ne Lo sguardo di Ulisse incontriamo un'altra sequenza dal forte peso metaforico, è quella in cui la statua di Lenin, fatta a pezzi e distesa a creare l’immagine di una figura morente, naviga su un barcone, destinata ad un collezionista tedesco, seguita con curiosità, nostalgia o, forse, soddisfazione dalla folla che si accalca sulla sponda del fiume. E' una sequenza leggibile come riflesso - per dirla con il condottiero della Rivoluzione d'Ottobre - della crisi di un’epoca e della fine di un’ideologia. Questo film è fra i più ricchi di elementi socialmente surreali, ad iniziare dalla molla del racconto: la ricerca di alcune bobine, mai sviluppate, di un film dei fratelli Manakias (Yannakis, 1879 – 1954; Miltos, 1881 – 1964). Qui è forse possibile cogliere anche un riferimento autobiografico alla prima regia, mai portata a termine, di questo autore (Bianco e nero, 1966). Qui c’è anche la straordinaria scena del ballo di fine d’anno in cui, ad ogni giro di danza, corrisponde il passare di una stagione – 1945, 1950, 1958 - e il ritorno dei funzionari governativi che arrestano qualcuno o sequestrano i beni degli inquilini. All’origine di questa invenzione c’è un ricordo del critico israeliano Dan Fainaru che, conversando con il regista, gli ha raccontato di come, prima di uscire dalla Romania per emigrare in Israele, la sua famiglia fosse stata spogliata, anno dopo anno, di ogni avere.
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Lo sguardo di Ulisse
Un episodio di vita vera diventa materia per una rappresentazione simbolico – surreale, ricostruzione di una festa che, lentamente, si trasforma in tragedia. Rimanendo ancora al film, c’è da notare che la tendenza a costruire opere suscettibili di più letture è applicabile anche alla struttura interna ai vari racconti. In questo senso assume un particolare significato la scelta di far interpretare le tre figure femminili, che svolgono un ruolo fondamentale nella vita del protagonista (Harvey Keitel), dalla stessa attrice (Maia Morgenstern). Sono personaggi disperati, dolorosi, destinati ad essere fra le prime vittime della follia della guerra. Il film è aperto da alcune sequenze girate nel 1905 dai fratelli Manakias in cui compare una contadina che, si dice, abbia 114 anni e che, quindi, potrebbe costituire la sola immagine cinematografica esistente di una persona nata nel 1700, più precisamente due anni dopo la Rivoluzione Francese.