35° Cairo International Film Festival 2012

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35° Cairo International Film Festival 2012
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manifesto35° Festival Internazionale de Il Cairo

 

 

 

 

Il festival internazionale del cinema de Il Cairo è giunto alla 35 edizione in un momento di grande travaglio per l’Egitto. Già questo costituisce un risultato molto importante a cui si aggiunge la qualità dei film in cartelloni, molti dei quali prodotti da paesi arabi o africani come Arzerbaigian (Steppe ManL’uomo della steppa) Kuwait (Tora Bora), Iran (The private life of MR. & MRSLa vita privata del Signore e della Signora), Marocco (Look at the king in the moon - Guardate il re della luna), Iraq (Death TriangleTriangolo della morte), Tunisia (Kingdom of AntsIl regno delle formiche), Nigeria (Last Flight to AbujaL’ultimo volo per Abuja) e, naturalmente, Egitto (Snap ShotSparare un colpo). Il carrellone è completato da film cinesi (PackagePacchetto), greci (Three days of hapinessTre giorni di felicità), brasiliani (The last stopL’ultima fermata), polacchi (The Fifth season of the YearLa quinta stagione dell’anno), spagnoli (Alì e A Soft Scent of Cinnamon Un dolce profumo di cannella), russi (Protest DayGiorno di protesta), turchi (Love in the secret gardenAmore nel giardino segreto), venezuelani (A Breach in the SilenceUna breccia nel silenzio), francesi (Rendez-vous à KirunaAppuntamento a Kiruna). L’Italia sarà presente con L’industriale di Giuliano Montaldo.

linverno dello scontentoIl festival si è aperto con El sheita elli fat (L’inverno del nostro scontento) dell’egiziano Ibrahim El Batout, già premiato al Festival del Cinema Mediterraneo di Montpellier. Il film ricostruisce, attraverso i triboli e le speranze di un intellettuale, le giornate del gennaio 2011 che portarono, attraverso i moti di piazza Tahrir (Indipendenza), alla caduta del regime di Hosni Moubarak (1928). Il regista non ci risparmia scene violente di tortura per denunciare le malefatte degli uomini dei Servizi di Sicurezza, ma ha la lucidità di concludere con l’amara constatazione che, siano ad oggi, nessuno dei repressori è stato chiamato a rispondere di ciò che ha fatto. E’ il quadro partecipato e toccante della fine di una dittatura pluridecennale e marchia non solo i responsabili diretti, ma anche quelle potenze occidentali che hanno voltato la testa dall’altra parte. Un film militante, dunque, emozionante e partigiano quanto ci si può e deve aspettate, non certo un’analisi approfondita di ciò che è successo in quei giorni. Una volta, parlando de L’uomo di marmo  (Człowiek z żelaza, 1981), Andrzej Wajda disse: so che non è un capolavoro, ma è il film che, in questo momento, un regista polacco doveva fare. E’ la stessa cosa la si può dire per questo testo: un’opera in cui il valore politico mette in ombra qualsiasi altro giudizio.

3days_of_happinessIn concorso è stato presentato Treis Meres eftihias (Tre giorni di felicità) in cui il regista greco Dimitri Athanitis ricostruisce una storia di adulterio focalizzandone tre protagoniste: Irina un’immigrata russa che si prostituisce per racimolare i soldi necessari da arrivare in Canada, Vera la moglie di un cliente di Irina che si è innamorato di lei, Anna la figlia della domma tradita che tenta di esorcizzare i fantasmi che la opprimono sposandosi. Le cose precipitano quando Vera scopre il tradimento del marito – ha assoldato un investigatore privato che ha chiesto, come pagamento, di fare l’amore con lei – e si uccide. Anche il sogno di evasione di Irina naufraga contro le dure leggi del clan che la controlla, mentre Anna rimarrà sola e ancor più oppressa di prima. Il film intreccia queste storie in un mosaico di non facile lettura e lo appoggia su una tessitura di colore con dominanti azzurre. Un colore che può richiamare la serenità, ma che in questo caso, da corpo ad un vuoto totale. La storia è ricostruibile solo a patto di metterne assieme i pezzi come in un puzzle, ma alla fine il quadro risulta chiaro. Il dato emergente è la triste solitudine di donne che, indipendentemente dalla condizione sociale in cui si collocano, hanno il vuoto attorno a se. Un film non riuscito al cento per cento, ma stimolante e interessante.


cholchuCholchu (L’uomo della steppa) dell’azerbaigiano Shamil Aliyev racconta una favola: quella di un uomo solitario che vive isolato allevando cammelli dopo la morte dei genitori e di una donna sedotta e abbandonata da un tipaccio violento e traditore. Lei trova nell’allevatore un compagno e una possibile occasione di nuova vita. Il tutto narrato utilizzando i quadrupedi come una sorta di coro muto che accompagna l’intera la storia. Il dato dominante ha una qualche assonanzata arcadica: la campagna pura e semplice contrapposta alla città rumorosa, traditrice e infida. Lo stile mira a una forte semplificazione di caratteri e situazioni: i buoni da una parte, i malvagi dall’altra. Sembra quasi un testo d’altri tempi, uno sguardo semplicistico su un quadro decisamente più complesso. Un film che esalta i buoni sentimenti, ma si colloca decisamente fuori dal tempo e dalla realtà.

the_priv_life_mr_ms_mZedegi-e khosousi-e agha va khanom-e mim (La vita privata della signora e del signor M) è l’opera seconda del regista iraniano Rouhollah Hejazi e s’inserisce in qual filone di storie private con cui i cineasti di questo paese tentano di mantenere in vita una cinematografia che in passato ha dato grandiosi frutti prima di essere stroncata dalla censura dei chierici mussulmani. In questo caso il film ruota sul conflitto che attraversa una coppia in cui il marito ha forti speranze d’ascesa manageriale in un’azienda controllata da investitori esteri, mentre la moglie preferirebbe un’esistenza normale lontana dalla tensioni del mondo degli affari. Il conflitto esplode quando il rappresentante degli investitori offre un importante incarico alla donna di cui ha sperimentato intelligenza e fantasia. Dapprima il marito è orgoglioso di tanto successo della sua compagna, ma ben preso invidia e gelosia iniziano a trapanargli l’animo avvelenando la vita coniugale. Tutto esplode, in fine, quando la donna gli rivela di essere in attesa di un secondo figlio, cosa che mette una pietra tombale sulle aspirazioni di successo dell’intera famiglia. Il film è girato in maniera falsamente sperimentale – il regista ha alle spalle un carriera di videoartista – ma affronta un problema tutt’altro che secondario in una società che ha molti conti in sospeso con l’altra metà del cielo. In questo entra nel vivo di questioni tutt’altro che banali e niente affatto risolte in un contesto fortemente maschilista e ancor più condizionato da robusti interdetti e dogmi religiosi.


 

tora_bora_1Tora Bora è firmato da Walid Al Awadi, uno dei pochi cineasti attivi in Kuwait, racconta di una madre e un padre che arrivano in Pakistan, tappa verso l’Afghanistan, per tentare di recuperar il figlio. Il giovane, vittima della retorica talebana, si è arruolato con i combattenti mussulmani che operano nella zona di Tora Bora che è stata per anni il fortilizio in cui si era rifugiato e continuava ad operare Obama Bin Laden. Ben presto il giovane idealista scopre la violenza di cui sono impastati questi combattenti e tenta di staccarsene, ma finisce loro prigioniero. Quello che s’imbarcano è un vero calvario percorso attraverso villaggi di pastori, presidi medici avanzati, campi profughi. In tutte queste situazioni i Talebani irrompono con ferocia inusitata, un po’ come erano rappresentati gli indiani nei vecchi western hollywoodiani. Il film è percorso da un’ingenuità e da uno schematismo quasi irraggiungibili. Solo un ingenuo all’ennesima potenza potrebbe chiudere gli occhi davanti ai crimini di questi guerrieri di Allah che hanno per nemici, fra gli altri, soprattutto le donne e l’educazione dei giovani. Se questo è vero non è meno vero che coloro che li avversano hanno anche loro non pochi scheletri negli armadi. Si veda, a solo titolo d’esempio, la sottile esaltazione dei servizi segreti pakistani, qui visti come una sorta di banda di angeli vendicatori e soccorritori dei deboli, laddove sono noti i rapporti a doppio filo che legano quest’istituzione con il terrorismo jihadista. Allo stesso modo i sentimenti, i personaggi e le situazioni appaiono tagliati con l’accetta, figurine di un albo propagandistico più che personaggi dotati di un qualche spessore.

a_breach_in_the_silenceBrecha en el silencio (Breccia nel silenzio) dei venezuelani Luis Alejandro e Eduardo Rodriguez è un film importante per l’argomento trattato, le molestie sessuali nel chiuso della famiglia, e per lo stile con cui espone la storia. Ana è una diciannovenne sordomuta che la madre ha fatto assumere nella fabbrica d’abbigliamento in cui lavora, ma che sfrutta ferocemente sequestrandole il salario, obbligandola a fare la serva al servizio di fratello e sorella e gravandola di tutte le faccende domestiche. A questo si aggiungono le ripetute violenze sessuali del padre, un meccanico più interessato all’alcol che ai motori. Un giorno il fratellino assiste casualmente a una di questi stupri e ne è sconvolto. Per giunta l’uomo inizia ad indirizzare le sue sordide attenzioni anche verso la sorella minore. La madre, autoritaria e attratta da rituali masochisti, non vede nulla sino al momento in cui le cose toccano un punto di non ritorno. Ora la sola soluzione è la fuga da casa e i tre giovani scappano arrivando sino al mare in cui si immergono in un allegro gioco che è anche rito liberatorio. I registi raccontano questa storia con immagini molto lavorate, intrecciano i tempi narrativi mescolando presente e passato, ne risulta un testo di grande interesse anche se appannato da un finale eccessivamente ottimista. Un particolare interesse emerge dallo sguardo con cui i due cineasti affrontano il quadro di esistenze strette fra la miseria economica, la disperazione e la bestialità sessuale.

unknown_land posterI grandi eventi storici e politici coinvolgono spesso le grandi città, ma hanno echi poco esplorati nelle parti più lontane del territorio. Così è stato anche per il vasto movimento andato sotto l’etichetta di primavera araba, una rivoluzione che ha coinvolto molti paesi dell’area – Tunisia, Libia, Egitto – ma che è stata osservata soprattutto per gli accadimenti che hanno coinvolto le capitali, al massimo le maggiori città. Unknow land (Terra sconosciuta) è una coproduzione fra Grecia, Cipro e Yemen affidata a Manuel De Coco e ambientata nell’isola yemenita di Socotra, al largo del Corno d’Africa. Il film contrappone tre piani: lo smarrimento di un naufrago approdato casualmente su una spiaggia dell’isola, le cronache della primavera araba carpite da una radio e i meravigliosi paesaggi cui da vita una natura arcaica e primordiale la cui flora annovera ben 825 specie di piante, il 37 per cento delle quali si trovano solo qui. E’ un’affascinante riflessione sulla vita, la religione e le forze primordiali. E' un testo curatissimo nelle immagini e complesso nella proposta. Un film privo di dialoghi – i momenti topici della storia sono affidati a una foce fuori campo – che ricorda molto il cinema del nostro Franco Piavoli (1933) che ha firmato opere come Il pianeta azzurro (1982) e Al primo soffio di vento (2002). In altre parole è un film poetico e intenso.