IL CARNEVALE NEL CINEMA: UNA FESTA DELLA VERITA’

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IL CARNEVALE NEL CINEMA: UNA FESTA DELLA VERITA’
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 Il cinema italiano

allonsanfan 1974 1 tempoIl rapporto tra cinema e Carnevale può essere compreso e scisso storicamente in due tronconi principali: quello iconografico, caratterizzato da una più o meno elegante accentuazione del materiale figurativo e un altro psicologico-sentimentale, che ponendo l'accento su diversi elementi del racconto o della narrazione (diegesi) finisce per assumere il travisamento e generalmente l'epilogo della festa, come momenti catartico-epifanici, ossia di disvelamento della vera personalità o dei reali proponimenti del o dei protagonisti. Parimenti la condizione di squilibrio creata dall’eccezionalità festaiola tende a risolversi, sempre a chiusura del martedì grasso, in un nuovo equilibrio per lo più diverso da quello iniziale ma generalmente meno precario, presentandosi quest’ultimo come quello definitivo o comunque normalizzato dal ritorno alla realtà o alla verità, dopo lo sconvolgimento dell’ordinarietà. Dunque (almeno per il cinema autoriale) una sorta di festa della verità, costruita intorno quel che può definirsi un vero e proprio paradigma semantico o significante visivo: l’associazione dell’immagine del Carnevale ad una concettualizzazione, la presenza di una realtà altra da quella mostrata che emergerà più o meno drammaticamente e generalmente proprio alla fine della festa. Tramontata la fase del cinema primitivo in cui si organizzano le strutture narrative e lo spettacolo filmico sviluppa una narrazione articolata (Carnevale romano, 1912, di Guido Tutino; La volpe vecchia in Carnevale, 1912 della Savoia Film; Carnevalesca, 1918, di Amleto Palermi; Carnevale tragico,1924, di Ubaldo Maria Del Colle), già con La vita e la commedia (1921) di Alfredo De Antoni, il percorso cinematografico del Carnevale si definisce in tutte le sue implicazioni narrative, psicologiche ed estetiche (una festa mascherata si rivela l’occasione per capire la vera indole di una donna).

Si fissa così quel vero e proprio paradigma semantico destinato ad una continua riproposizione: la fine della festa mascherata coinciderà con una rivelazione, una catarsi spesso tragica o tragicomica con cui giungere finalmente alla verità (I vitelloni, 1952, di Federico Fellini; Giuseppe Verdi 1953, di Raffaello Matarazzo; Frou Frou, 1955, di Augusto Genina). La stessa allegoria utilizza Luchino Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1957), storia di un drammatico sradicamento culturale, traumatico inurbamento e disgregazione di una povera famiglia di immigrati meridionali. Nell'episodio dedicato a Ciro, che prende le mosse dalla conclusione del Carnevale dalla gaiezza della relazione del giovane si precipita nella cupa atmosfera della vicenda, da quel momento foriera dell’incombente tragedia. Melodramma tragico, capolavoro snobbato e boicottato da certa critica moralista, ispirato ai racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori e a molti altri precedenti letterari, il film provocò una vicenda giudiziaria che si protrasse per anni. rocco e i suoi fratelliComplessa l’organizzazione delle immagini della festa in Allonsanfan (1974) di Paolo e Vittorio Taviani, dove sembra configurarsi una sorta di vero e proprio metaracconto diegetico (la perdita dell’innocenza d’un adolescente appare come metafora della vicenda politico-esistenziale d’un nobile rivoluzionario poi traditore). Re Burlone irrompe addirittura deflagrando nell'elegante L'eredità Ferramonti (1976) di Mauro Bolognini, dove la tortuosa protagonista appalesa il piano per impadronirsi dell’eredità del vecchio e ricchissimo mugnaio Ferramonti - del quale diverrà l’amante dopo aver sedotto i figli - proprio durante il veglione di Carnevale. Anche l'immarcescibile scenario della commedia e della commedia all'italiana usa spesso la festa come rivelazione e ritorno alla verità: Bravissimo (1954) di Luigi Filippo; I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli; Noi siamo due evasi (1959) di Giorgio Simonelli; Il disco volante (1965) di Tinto Brass; Straziami ma di baci saziami (1968) di Dino Risi; Il fischio al naso (1967) di Ugo Tognazzi; Una donna allo specchio (1984) di Paolo Quaregna; Tolgo il disturbo (1995) di Dino Risi, Camerieri (1995) di Leone Pompucci. Travestimenti necessari appaiono in Romeo e Giulietta (1968) di Franco Zeffirelli, Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996) di Baz Luhrmann, Rugantino (1973), di Pasquale Festa Campanile, Dio li fa e poi li accoppia (1982) di Stefano Vanzina, Champagne in Paradiso (1984) del Aldo Grimaldi, Anni ’90 (1992) di Enrico Oldoini. E serate in maschera accompagnano Una ragazza chiamata amore (1968) di Sergio Gobbi, Povero Cristo (1975) di Pier Carpi, Il grande Bleck (1987) di Giuseppe Piccioni e Perduto amor (2003), esordio registico di Franco Battiato, qui anche soggettista in coppia con il filosofo catanese Manlio Sgalambro. Una lunga, quasi documentaristica, sequenza del Carnevale di Paternò fa da sfondo alla crisi di un rapporto di coppia tra un operaio milanese trasferito in Sicilia e la fidanzata rimasta al Nord, nel malinconico I fidanzati (1963) di Ermanno Olmi. Ma come non ricordare il grottesco travestimento da Andreotti del bimbo protagonista del recentissimo La mafia uccide solo in estate (2013) di Pif, lusinghiero successo della stagione in corso?

Cinema mondiale

les enfants du paradisLa fascinazione della catarsi, con colpi di scena finali che svelano una verità prima creduta diversa, sembra dunque essere il significante più appropriato dell’uso filmico del Carnevale, almeno per il cinema d’autore. In altri termini, proprio come l’uccisione, il rogo, di Re Burlone mette fine alla follia, al regno di piaceri, ad un periodo di libertà e di sfoghi passionali, così la fine della festa nel cinema coincide con il ritorno dei protagonisti (a volte con un’aperta confessione) alla normalità momentaneamente alterata. Su questa linea semantica si muovono, ad esempio, lo sfarzoso ed elegante Capriccio spagnolo (1935) di Joseph von Sternberg, ambientato con continuità temporale durante il Carnevale di Siviglia; il celeberrimo Les enfant du Paradis (Amanti perduti, 1945), capolavoro del realismo poetico francese firmato Marcel Carné e sceneggiato da Jaques Prevert; o, ancora, il celeberrimo, violento e burrascoso cult hollywoodiano sadomaso, Gilda (1946) di Charles Vidor con Rita Hayworth e Glenn Ford, tutti film dove un’implacabile verità abbassa inesorabilmente il sipario proprio alla conclusione del Carnevale. Autorialità a parte, significati tutt’altro che simbolici racchiudono di contro Kameo Kirby (1930) di Irving Cummings, Coriandoli (1936) di Hubert Marischka, Mascherata (1934) di Willi Forst, come del resto i rari carnevali orientali: I misteri di Shangai (1941) di Josef von Sternberg; Il kimono scarlatto (1959) e Un piccione morto in Beethovenstrasse (1973) di Samuel Fulller. Ad uso turistico, Montecarlo e il suo Carnevale appaiono in Capitan uragano (1960) di George Jacoby; quello di Rio in Copacabana Palace (1963) di Steno; Il dittatore del Parador in arte Jack (1988) di Paul Mazursky. Una specie di carnevale africano si mostra in Madame Brouette (2002) di Moussa Sene Absa. Il Carnevale di Bahia è invece prodromo al subbuglio sentimentale dei protagonisti nel surreale Donna Flor e i suoi due mariti (1978) di Bruno Barreto e in Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, attualizzazione del mito greco in una Rio festaiola e danzante.