Cinema ungherese e calcio - Pagina 4

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Cinema ungherese e calcio
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Il giornalista accetta, ma al momento di parlare racconta la verità. La situazione è arrivata ad un punto critico e solo l'intervento del capo distrettuale della polizia può risolverla, egli decide salomonicamente: non vi è stato alcun omicidio, il poliziotto è caduto accidentalmente e l'arbitro è morto in modo ugualmente casuale. Ora il reporter è libero, ma proprio nel momento in cui lo riportano a casa suo figlio uccide l'agente che aveva perseguitato la madre e si rifugia in un campanile ove una campana suona a distesa. Il riferimento finale è alla rivolta che scoppierà di li a pochi mesi ad opera di quei giovani che non tollerano più i soprusi del regime. Un film, dunque, direttamente politico, con una abbondanza di dialoghi - caratteristica tipica del cinema magiaro degli anni settanta e ottanta - ancor più accentuata che in altri casi. A questo proposito è bene riflettere se questa caratteristica costituisca un difetto, come si è sostenuto sino ad ora, o non rappresenti, piuttosto l'annuncio, magari confuso, di un'idea di cinema più slegata, che non in passato, dalla variazione delle immagini. Quello stesso di cui sono oggi portatori registi come il portoghese Manuel De Oliveira o l'iraniano Abbas Kiarostami. Ritornando al film di Ferenc Kósa, esso si colloca fra i momenti più interessanti di riflessione sulle ragioni della rivolta del 1956, un argomento per molti versi scottante che, per anni, il cinema e l'intera cultura ungherese hanno affrontato solo in modo indiretto. "Az aranycsapat" (La Squadra d'Oro, 1980) di András Surányi è un documentario sul cosiddetto "Golden Team" allenato da Gusztáv Sebes, capitanato da Ferenc (Frérot) Puskás e di cui facevano parte giocatori come Gyula Grosics, Nándor Hidegkuti, Sándor Kocsis, Zoltán Czbor, József Bozsik e Lázló Budai. Un gruppo che incarnò i sogni di un'intera generazione di sportivi sin dalla vittoria contro la nazionale inglese, per 6 a 3, il 25 novembre 1953 allo stadio di Wembley, lo stesso incontro che sarà al centro del film di Péter Timàr di cui parleremo in seguito. Il lavoro di András Surányi ha il taglio di un serio reportage televisivo costruito secondo il modulo che comprende interviste a ex giocatori magiari e stranieri, uomini politici, organizzatori sportivi, unite a brani d'epoca. Il tutto cucito assieme da un particolare evento: il ritorno in patria, nel 1981, di "Frérot" Puskás, soprannominato "Il Comandante Lampo", dopo venticinque anni d'esilio in Spagna. Uno dei meriti non secondari del film è quello di collocare i fatti sportivi nel quadro del loro tempo, facendo emergere alcuni dei legami fra evento calcistico e politica, intesa in senso ampio. Un esempio per tutti. La spinta all'orgoglio nazionale suscitata dal regime in favore della squadra, divenuta una sorta di simbolo di riscatto e superamento dei mille problemi che affliggevano il paese. Dopo la sconfitta per 2 a 3, subita ad opera della nazionale tedesca nella finale dei campionati del mondo del 1954 organizzati in Svizzera, questa pulsione nazionalista si trasformerà in rivolta verso la squadra - il ritorno avviene di nascosto, facendo tappa in una piccola città prima di arrivare a Budapest alla spicciolata - e contro il regime. Ci sono proteste, incidenti, manifestazioni di piazza con arresti e condanne, quasi un preannuncio della rivolta dell'ottobre - novembre 1956. Allo stesso modo, appare davvero inquietante il brano in cui Nándor Hidegkuti ricorda come i dirigenti dell'azienda in cui lavorava la moglie gli chiesero d'intervenire per far arrivare alcuni pezzi di ricambio e come li ottennero grazie alla fama acquisita dal giocatore. Quest'intreccio fra rilievo delle persone e funzionamento della struttura produttiva, è una delle distorsioni di cui si sono nutriti e sono morti i regimi realsocialisti. "6 : 3" (6 a 3, 1999) di Péter Timàr si riferisce al risultato della storica partita di calcio giocata, il 25 novembre 1953, nello stadio di Wembley ove il "Golden Team" magiaro sconfisse la squadra inglese. Un netturbino, nato proprio in quel giorno, riceve l'incarico di sbarazzare la stanza di un ex - massaggiatore. Trova una raccolta di ricordi di quella partita, fra cui la maglia numero nove indossata dal mitico centravanti Nándor Hidegkuti. Non resiste alla tentazione, l'indossa e precipita nella Budapest di quelle ore. E' un alieno in un mondo triste, oppresso, in cui tutti hanno paura di tutto, ove si rischia la prigione solo a cantare l'inno nazionale. Fa' vari incontri, tutti disastrosi: lo trattano da spia, provocatore, visionario. C'è una sequenza, tragicamente esilarante, in cui il protagonista capita in un cenacolo d'intellettuali, ove riconosce studiosi e scrittori che, dopo la fine del regime, si costruiranno biografie "resistenziali", mentre hanno sempre servito il potere imperante. Un altro brano, segnato da un'ironia terribile, è quello in cui, in una stanza per gli interrogatori, aguzzini e torturato stanno ascoltando la partita e tutti, il maltrattato compreso, si mettono a saltare di gioia all'annuncio del primo gol magiaro. Potrebbe sembrare un'invenzione geniale del regista, ma è solo la ricostruzione di una fatto realmente accaduto. Lo racconta lo scrittore András Berkesi ne "La Squadra d'Oro". Il film di Péter Timàr è bello, preciso nella ricostruzione dell'epoca, giustamente in equilibrio fra ironia e dolore. Il suo pregio maggiore sta nell'evocazione di un'atmosfera di sospetto, in quel costringere gli esseri umani a vivere in modo grigio e diffidente. Un altro grave crimine del cosiddetto "socialismo reale". Inoltre, da un punto di vista stilistico, l'opera amalgama bene ironia, melanconia e denuncia politica. Un buon esempio, speriamo non l'ultimo, del rapporto che lega il cinema ungherese al gioco del calcio.