25 Maggio 2008
Il 24 maggio si è spento a Messina lattore Tano Cimarosa. In suo ricordo proponiamo una nota di Franco La Magna
Ruvido, sgraziato, con un corruccio perennemente stampigliato sul viso grifagno, lo sguardo torvo e sospettoso e una parlata inesorabilmente sicula tutte negatività che ne hanno fatto uno deglindimenticabili caratteristi del grande cinema italiano al mio sfrontato tentativo di rompere subito il ghiaccio porgendogli la mano con un confidenziale: Ti conosco, mi abbaia contro un raggelante e disarmante: E chi ficimu i scoli nsemi ? (Ma abbiamo frequentato le stesse scuole?), ricacciandomi in gola (confesso) lipocrita sorriso di convenienza. Lingrugnito è il messinese Tano Cimarosa, sintomatico rappresentante della poco ciarliera sicilianità che dal Giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, in cui invece, nei panni di Zecchinetta, scompostamente inveiva contro il bel capitano Bellodi-Franco Nero, passando per linquietante e kafkiana commedia nera Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy o attraverso le tragicomiche vicissitudini dei nostri connazionali allestero (Bello onesto emigrato in Australia
1972, di Luigi Zampa e Pane e cioccolata, 1974, di Franco Brusati, in un grottesco e ripugnante travestimento) o nei panni dello spocchioso venditore ambulante nella dolente commedia Per grazia ricevuta (1971) di Nino Manfredi, segno tangibile della non taciuta ammirazione ed amicizia per lattore-regista laziale ha lasciato in quellirripetibile ventennio che va dalla fine degli anni 50 a quella degli anni 70, age dor della grande commedia allitaliana , una traccia indelebile nella sterminata galleria di personaggi minori, defilati, scamiciati, ricco corredo dun cinema già in odor di leggenda anche grazie alle presenze a volte del tutto marginali, discrete e ingenerosamente sottaciute, dei caratteristi. Poche pose, a volte due o tre battute, ma senza le quali molti film sarebbero alla fine risultati più poveri, imbozzolati in una sorta dindeterminatezza, di non raggiunta completezza, come ben compresero, ad esempio, Vitaliano Brancati nelle vesti di sceneggiatore o il sanguigno Pietro Germi, squisiti cesellatori di personaggi secondari, tasselli dun mosaico altrimenti mutilo.
Rivedendolo e ripercorrendo con stentata memoria una strepitosa carriera cinematografica tornano in mente quegli anni di boom fittizio e fracassone, quando acquistando una lavatrice o un frigorifero si aveva limpressione dun raggiunto benessere e duna mondanissima felicità a portata di tasca, che furono poi gli stessi anni dellinizio della commedia allitaliana, allettante impasto di comicità e dramma, impietoso genere al vetriolo, come tale istituzionalizzatosi negli anni 60, che oggi restituisce come enorme giacimento culturale a chi sappia o abbia voglia di conoscere quella obliata air du temps e quella mutazione antropologica degli italiani di cui scriverà e più avanti tenterà di rappresentare Pasolini, nemo propheta in patria, inseguendo il sogno duna età dellinnocenza ancora non appestata dalla lebbra delledonismo e del consumismo di massa. Anni di grandi presenze registiche ed attoriali, comici strabilianti, salaci vignettisti, perduti figurinisti, dialogisti e sceneggiatori di provenienza colta, che continueranno a recuperare sullonda lunga dellormai spento neorealismo la grande tradizione letteraria e al pari dun Verga o dun Gadda riconquisteranno o inventeranno esilaranti espressioni gergali, trasfondendo linfa vitale ad un cinema precipitosamente convertito ai toni più scanzonati del neorealismo rosa e poi pencolante tra comédie du miracle, pepla, politique des auteurs, western (o antiwestern di Leone), tardivi filoni antifascisti, sperimentalismi e militanze, prima del baratro in cui precipiterà inghiottito dallesplosione dei net-work alla fine degli anni 70. Un cinema nazionale saldamente dominato da una commedia ruffiana, accattivante, intrigante, che abbraccia il prodotto dautore e lignobile pecoreccio e impudicamente strizza locchio al box-office, strega e incanta gli spettatori del tempo rivaleggiando e infliggendo, seppur momentaneamente, clamorose sconfitte perfino ai suadenti incantamenti hollywoodiani (nel 1969 gli introiti dei film nazionali saliranno fin quasi al 60% !), ma generalmente lascia tiepida la critica engagée, suscitando a volte vere e proprie ripulse da parte di teorici e studiosi da Calvino a Ferrero, da Argentieri ad Aristarco, da Miccichè a Torri, da Fofi a Baldelli ed altri che ne denunciano (e aborrono) il compiacimento e lindulgenza. Lambiguità della commedia allitaliana il suo mettere in campo eroi negativi per poi riderci su e in definitiva per assolverli data la nequizia dei tempi ancora una volta sembrò rispecchiare gli ondeggiamenti e le ambiguità di una società pronta a censurare e subito dopo a dimenticare, a ergersi a moralista e subito dopo a transigere, a provare tutto sommato una oscura e inconfessata ammirazione per imbroglioni, corrotti e corruttori. E un figlio di quegli anni Tano Cimarosa, presenza costante dun cinema talvolta cinico e immemore, dove spesso si ritrova in produzioni minori quasi sempre imprigionato nei ruoli canonici del siciliano (il mafioso, il poliziotto, lemigrante ): dal bellico-picaresco Il tesoro di Rommell (1955) di Romolo Marcellini, al truculento Mafia alla sbarra (1963) di Oreste Paolella; al grottesco e convenzionale (nel solito retrivo e sessuofobico paesino siciliano abitato da torva genìa di mostri alla Germi ) La smania addosso (1963) di Marcello Andrei, insieme a Vittorio Gasmann, Gino Cervi e Lando Buzzanca; a Mare Matto (1963) di Mario Mattoli, accanto allingiustamente dimenticato Michele Abruzzo (colonna portante del teatro siciliano), Jean Paul Belmondo e Gina Lollobrigida; al grossolano I due parà (1966) di Lucio Fulci, palcoscenico dei funambolici Franco Franchi e Ciccio Ingrassia; al gangster-movie di produzione italiana Cinque figli di cane (1968) di Alfio Caltabiano, in cui il messinese interpreta lirlandese Moncio; allo sconosciuto La morte sullalta collina (1968, qui come generale Valente), western falso-USA di Alfredo Medori (dal pittoresco pseudonimo, come si usava un tempo, di Ringoold Fred); un cinema basso che tuttavia a volte riesce a cogliere spezzoni di verità non raramente negati a coevi prodotti autoriali. Il blasone, però, arriverà alla fine di quel decennio, proprio in quel troppo mitizzato 1968, anno dellesplosione della contestazione, ma che per lui significa soprattutto Il giorno della civetta (1968, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia), fulminante incontro e vero e proprio coup de foudre del regista veneto Damiano Damiani, che lo abbiglia con i panni calzanti dellurlante mafioso Machica, detto Zecchinetta, uomo donore innamorato del gioco dazzardo che quando fa lamore pensa a Stalin, insieme consacrazione e atto di nascita dei già ricordati scamiciati doc e di molte altre secondarie ma insostituibili figure di contorno: da La moglie più bella (1969) ancora di Damiano Damiani, dove con il suo stesso nome e cognome, Gaetano Cimarosa, gioca il ruolo del burbero padre della coraggiosa Francesca Cimarosa (lesordiente Ornella Muti), opera ispirata al clamoroso caso di Franca Viola (la ragazza che rifiutò di sposare il mafioso-violentatore denunciandolo alla polizia); allo stereotipato (così lo vuole certo cinema) agente Cariddi dellamarissimo Il commissario Pepe (1969) di Ettore Scola; al prolifico Salvatore Laganà, affaristico e scaltro multipadre con cui viene a patti il dottor Guido Tersilli (Alberto Sordi) de Il medico della mutua (1968) di Luigi Zampa; al morituro Sebastiano Colicchia socio di Nino Peralta (Giuliano Gemma) dellingiustamente sottovalutato Un uomo in ginocchio (1977) sempre di Damiani, prodotto mafiologo di cui non è stata colta la sconvolgente novità della ribellione al potere mafioso da parte di un uomo della strada; fino al nostalgico e pluripremiato Nuovo cinema Paradiso (1988) e allinquietante Una pura formalità (1994) entrambi di Giuseppe Tornatore, in questultimo nel personaggio dellinserviente; per chiudere con Anni 90. Parte II (1993) ignobile sequel del primo, firmato dallo stesso Enrico Oldoini, vero contemporaneo horror vacui, in cui la fulminea apparizione iniziale di Cimarosa (Mimì Cantalamessa, abituale mafioso di turno) si fa metafora del cupio dissolvi della commedia, scaduta ad insulso trash televisivo godereccio e incarognito palcoscenico di fondischiena e scosciatissime veline incarnato da un manipolo dattori monocordi e (probabilmente) ultrapagati. Tutto questo avrei voluto dire o ricordare a Cimarosa (inutile rispolverare un altro sprofondato incontro avvenuto durante un piccolo festival anni prima, in cui mera capitato di spezzare una lancia, rischiando di rompermi il collo, a favore dun cinema povero e demodé), ma di fronte allimperiosa calata degli zuccheri nellassolato e sonnacchioso post-mezzoggiorno estivo tirrenico siciliano e allormai inquietante ritardo del desinare, preferii tacere affidando la conversazione alle gioiose ebbrezze che da li a poco Bacco ci avrebbe immancabilmente donato in accordo alle locali delizie mangerecce. Sicché, puntualmente, poi tutti rabboniti dallintenso lavorio dei succhi gastrici e vagamente obnubilati dal rosso nettare degli dei, mentre lEs festaiolo brigava per sgambettare bonariamente locchiuto Super-Ego, predisposti a più benevolo colloquio, alla fine trottammo verso il mare cristallino di San Gregorio, godendo duna limpida vista sullarcipelago di Eolo, in quei giorni soporosamente dormiente. E così ci ritrovammo nel pomeriggio nella hall dun hotel ormai come vecchi amici a fotografarci insieme e a sera a discorrere al bar di progetti, compagnia raccogliticcia dattori, sceneggiatori, critici, giornalisti nelle cui vesti ero stato li invitato per parlare dun mio modesto scritto: Tano, Enzo, Alessandro, Luigia, Barbara, io e un piccolo codazzo di presenze indigene. Seppi così che tornato al vecchio amore per il teatro lottantenne Cimarosa portava sul carro di Tespi (si perdoni lallegoria) una farsa, Mogli e buoi di cui conosciuta la trama, nulla dico sulle evidenti ascendenze martogliane e per la quale inaspettatamente mi si offre una sponsorizzazione. Oddio! nelle vesti dimpresario teatrale mi par che maspetti la fatica di Sisifo (proverò, inutilmente, a piazzare lo spettacolo nella mia città, subito evirato dei già deboli entusiasmi da solerti impresari locali). Ma, mentre tutta lattenzione liquidamente si riversava sui diafani cristalli duna granita di mandorla, qualcosa comincia a non funzionare. Vedo Tano armeggiare avvilito e imbufalito intorno ad una macchia di colore giallo (o rosso), oggetto misterioso che a stento identifico come un telefonino. Impreca contro le diavolerie moderne: U ietto, u ietto (Lo butto, lo butto), ma ormai conquistato (?) da mia sincera ammirazione decide di seguirmi (faccio anche da chouffeur) in un azzardo tecnologico a Capo dOrlando, dove sullincantevole lungomare ci rechiamo alla ricerca dun negozio delettronica. Ed è qui, nel rovente meriggio luminoso, che lipnotica fascinazione del cinema esplode con inatteso fragore pirotecnico. Dapprincipio ritrosamente esoso alle mia richiesta di rattoppare alla meno peggio limprovvido mutismo del variopinto portatile di Tano, il titolare del negozio come fulminato da messianica rivelazione allimprovviso esclama: Ma lei è Tano Cimarosa!. E per la prima volta vedo il viso imbronciato di Tano amabilmente incresparsi in un sorriso, incerto come un bimbo tra limprobabile gesto di schermirsi e un riluttante (o compiaciuto?) esibizionismo, pencolante tra quella saggezza delluomo che coincide con la sapienza dellattore e il legittimo compiacimento dessere ancora, ormai solo saltuariamente presente sul grande schermo, riconosciuto come quei grandi accanto ai quali ha compiuto la sua cinquantennale parabola dattore: Alberto Sordi, Nino Manfredi, Massimo Girotti, Vittorio Gasmann, Gerard Depardieu e poi Leopoldo Trieste, Lando Buzzanca, Giuliano Gemma, Ornella Muti, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Lino Banfi, Johnny Dorelli, Aldo Giuffrè, Mario Carotenuto, Eleonora Giorgi ; e ancora i registi: Damiano Damiani, Luigi Zampa, Nanni Loy, Giuseppe Tornatore, Franco Brusati, lo stesso Manfredi. Il cimarosiano orlandese però, lanciatissimo in una spericolata gimcana di titoli e attori, confessa infine con impeto mulleriano il suo inconffesabile guilty pleasure: i b-movies thriller-erotico-voyeristici degli anni 70 e i polizieschi-giustizialisti alla Bronson. E al culmine della sarabanda cinefila ecco citare altezzoso (ma prima non manca di ricordare un raccapricciante Delirio caldo, 1972, di Renato Polselli, prudentemente celato dietro lo pseudonimo di Ralph Brown) le due regie di Cimarosa: Il vizio ha le calze nere (1975) già da tempo in odore di cult ma odiato da tutti i dizionari del cinema e il poliziesco-casareccio No alla violenza (1977), di cui ricorda lambientazione messinese e il locale giustiziere della notte (lo stesso Tano, uomo-cinema alla Kim Ki duk o alla Tarantino, attore-regista-soggettista, paladino del bene ma alla fine liquidato per errore). E non è tutto. Defilatosi nel retrobottega in men che non si dica lallegro bottegaio, esperto in telefonia mobile, restituisce al cellulare di Tano voce squillante e sicura, rifiutando sdegnosamente ogni vile mercede in euro, loscura moneta europea su cui Tano non manca dinveire (Cu steuru non si capisci cchiù nenti), mentre ripone nel portafoglio multicolori banconote. Finalmente trattenendo a stento la voglia di approfittare delle insperate e ora rivelate passioni segrete del cimarosiano doc, barattando il mio vecchio telefonino con uno nuovo in cambio dun autografo di Tano, ciurlo dimprobabili impegni sicché lasciato rapidamente Capo dOrlando rientriamo raggianti a San Gregorio. La sera poi nella piazzetta del borgo, ex paese-presepio rivierasco ora borgo vacanziero affidato a solerte gestione imprenditoriale (la casa al mare va prenotata sei mesi prima), mescolati alla piccola folla accorsa assistiamo al piccolo trionfo di Tano, di cui rivediamo sullo schermo montato nella piazzetta fronte-mare un bel collage dimmagini e perfino uno short-film, immerso in tirreniche location, girato da un locale aspirante regista a cui luomo di Zancle ha generosamente prestato il suo volto. La kermesse si chiude a tarda sera con strascico di festeggiamenti privati prolungatisi fino al secondo canto del gallo (un dubbio amletico mi rode: il ristorante è uno sponsor occulto?) e immancabile spaghettata delle tre di notte, preparata dallaltrettanto inevitabile commensale-esperto in aglio-olio-peperoncino, che provvede allabbiocco definitivo. Nel buio torracchione dove tutti gli ospiti veniamo raccolti, al debole stormire delle frondi colti da insana passione canora (e, per quanto mi riguarda, obnubilato da sconveniente quantità di tasso alcolico) io e Tano intoniamo, a beneficio degli astanti, una stonatissima Vitti na crozza, prima di stramazzare nei rispettivi giacigli, mentre le donne salgono come castellane verso unala nascosta della torre e le prime luci dellalba sbiadiscono la stellatissima calotta del cielo dagosto. In stazione, dopo poche ore di sonno martoriato, il commiato sallunga sul ritardo del treno. Mi riservo Tano per ultimo, finché lo sferragliare delle carrozze tace e il capotreno sta per lanciare il fischio di partenza. Con enfasi, abbracciandolo, sbaglio guancia e piombo sul suo collo taurino: Ciao! gli sbotto brusco sullabbondante padiglione sinistro. E chi ficimu i scoli nsemi ?, mi fionda per tutta risposta stritolandomi la mano destra e spalanca su quello straordinario e mobilissimo faccione da bulldog, baluginante topografia di mezzo secolo di cinema italiano, un sorriso burlone dattore consumato.
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