Cinema europeo fra le due guerre - Pagina 2

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Cinema europeo fra le due guerre
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I modelli indicati agli autori, soprattutto dalla gerarchia nazista, erano quelli de "La corazzata Potëmkin" (1925) di Sergej M. Ejzenštein e "La madre" (1926) di Vsevolod Pudovkin. Un indirizzo che traspare dai film a più netto contenuto propagandistico. Solo per citare qualche titolo: "Vecchia guardia" (1935), apologia dello squadrismo italiano firmata da Alessandro Blasetti, lo storico "Scipione l'Africano" (1937) di Carmine Gallone, il retorico "Hitlerjunge Quex" (Il giovane hitleriano Quex, 1933) di Hans Steinhoff e l'antisemita "Jud Süss" (Süss l'ebreo, 1940) di Veit Harlan. In ogni caso, anche nella Germania hitleriana, un posto di rilievo è riservato al cinema di consumo; in primo luogo alle ricostruzioni storiche, in cui è più facile far filtrare lo spirito nazionalistico e di superiorità razziale che sta tanto a cuore al regime. Tuttavia ove i governi nazifascisti riuscirono ad utilizzare al meglio il cinema fu nel campo del documentario e del reportage. La lunga serie dei "Cinegiornali LUCE" (Unione per La Cinematografia Educativa) italiani e i film di Leni Riefenstahl in Germania rimangono un esempio di propaganda efficace, puntuale e ben costruita. I film della regista nazista, in particolare, sono studiati ancor oggi come modelli di cinema elaborato dal punto di vista estetico e stilisticamente complesso. Dalle sequenze di opere come "Triumph des Willens" (Il trionfo della volontà, 1935), dedicato al congresso tenuto dal Partito Nazionalsocialista a Norimberga nel 1934, e "Olympia" (1938), cronaca e apoteosi razzista delle Olimpiadi berlinesi del 1936, è possibile cogliere citazioni del cinema sovietico, ma anche influenze rinascimentali e neoclassiche. In un'epoca in cui la comunicazione di massa era affidata alla radio e al cinema, il fare leva sul circuito dei cinegiornali e dei grandi documentari, si rivelò una scelta vincente, tanto che questi materiali costituiscono un documento importantissimo per la conoscenza di ciò che accadde in quegli anni. A questo punto è possibile avanzare una prima riflessione. Il cinema delle dittature, preferendo più le opere d'intrattenimento che quelle apertamente propagandistiche, tranne il settore dei documentari e cinegiornali, appare più vicino al cinema hollywoodiano di quanto accada, invece, a quello di paesi democratici come Francia e Gran Bretagna. Il mercato francese è sempre stato molto appetibile per le altre cinematografie. All'inizio degli anni trenta la MGM cercò di realizzare, prima a Hollywood, poi a Berlino, film in doppia versione, una tedesca e una francese. Questo nel tentativo di stabilire salde radici in questi mercati. Un'operazione simile fu tentata dalla Paramount, che comprò il centro produttivo di Joinville, per farne una testa di ponte destinata ad inondare i mercati europei con film costruiti sul modello dei generi di successo americani. Nello stesso tempo alcuni cineasti varcano l'oceano con la speranza di rinnovare in America i successi ottenuti in patria. Tutte queste operazioni, americane in Europa e d'emigrazione europea verso gli Stati Uniti, non ebbero successo: unica eccezione il cantante - attore Maurice Chevalier che ottenne un certo favore a Hollywood. Il fatto è che, in quegli anni, il pubblico preferisce la produzione nazionale che si lega, soprattutto, ad un solido filone, ad un tempo, poetico e realistico. I film francesi di questo periodo, anche quanto imboccano il genere commedia o portano sullo schermo opere teatrali di successo, contengono un profumo di realtà e un solido aggancio alla situazione del paese. E' un terreno fertile in cui germogliano, solo per fare alcuni nomi, i talenti di: Jean Renoir, René Clair, Marcel Pagnol, Julien Duvivier, Marcel Carné. Fra questi un ruolo di primo piano lo assumono Marcel Carné e Jean Renoir. Al primo dobbiamo l'invenzione di quel geniale attore - personaggio che è Jean Gabin. Un eroe dimesso e solitario, braccato dagli uomini e condannato dal destino, fedele ad un suo personale codice, vero raggio di luce morale in periferie immerse nel grigiore e nella povertà. Film come "Quai des Brumes" (Porto delle nebbie, 1938) e "Le Jour se Lève" (Alba tragica, 1939) non sono solo il manifesto di un modo di fare cinema, il cosiddetto "realismo poetico", ma il legame fra la maniera di raccontare e il sentire profondo di un popolo. Sono storie destinate a diventare universali proprio perché, come quelle americane, nate da una cultura specifica. Il caso di Jean Renoir è ancora più indicativo. Il suo cinema, di forte impronta progressista, non disdegna la propaganda politica aperta, come nel caso de "La Masillaise" (La marsigliese, 1937), una rivisitazione in chiave popolare della Rivoluzione Francese, la cui produzione iniziò con una sottoscrizione della Confederazione Generale del Lavoro (CGT), e "La Vie Est à Nous" (La vita è nostra, 1936), un collage di tre episodi finanziato da Partito Comunista Francese. Tuttavia ove si coglie meglio lo spirito di quest'autore e del clima sociale e politico di quegli anni, il cosiddetto periodo del Fronte Popolare (1934 - 38), è in film come "Le Crime de Monsieur Lange" (Il delitto del Signor Lange, 1935), "La Grande Illusion" (La grande illusione, 1937) e "La Règle du Jeu" (La regola del gioco, 1939). In questo modo si disegna un cinema saldamente legato ad un paesaggio umano e ad un catalogo d'idee tipiche di un'epoca e di una nazione. Non è un caso se, divisa la Francia in due a seguito dell'occupazione nazista, sarà proprio la cinematografia della "Repubblica di Vichy", abbondantemente finanziata dai tedeschi, a ripresentare i film di "genere". Ritroviamo in ciò la conferma di quanto notato a proposito del cinema dei regimi fascisti. Il gusto per il prodotto di confezione e d'intrattenimento di stampo hollywoodiano appartiene più a questi che non alle democrazie. Per quanto riguarda la situazione inglese le cose vanno in modo abbastanza diverso. Occorre partire da una premessa: per comunanza di lingua e mercato, quella britannica si presenta, per buona parte della sua storia, come una sorta d'appendice della cinematografia americana. In primo luogo vi è un continuo flusso migratorio da Londra verso la California, flusso che hai suoi casi più clamorosi in artisti come Charles Chaplin e Alfred Hitchcock, ma che riguarda centinaia di attori e registi. Un secondo dato mette in campo il ruolo dei capitali americani nello sviluppo e nella sopravvivenza del cinema inglese. Ieri e oggi moltissimi film, formalmente britannici sono, invece, produzioni "esterne" (runaway) delle major hollywoodiane. Un terzo elemento riguarda la vocazione del cinema britannico ad attingere alla grande letteratura anglosassone: William Shakespeare, ma anche Jene Austen, Charles Dickens, Oscar Wilde, e, in tempi più recenti, John Osborne, Irvin Welsh, Joe Orton, …. Partendo da questo quadro verrebbe quasi da pensare che l'apporto inglese al cinema si riduca a un pregevole perfezionismo professionale, a una cura minuziosa dei dettagli e della recitazione. Così non è, infatti, anche la cinematografia britannica presenta un'indicativa vocazione al realismo. L'intera produzione della società Ealing, ad esempio, è segnata da questo spirito. Il punto più alto di questa vocazione si ritrova nella famosa "scuola inglese del documentario", che prende le mosse da John Grierson il cui lavoro di regista e, soprattutto, di produttore e organizzatore, innesca un nuovo spirito nel cinema britannico. La sua è una posizione teorica contraria al lavoro negli studios e alla politica dei "generi". L'obiettivo è fissato, invece, negli scenari reali e nella trasformazione delle immagini documentarie in linguaggio poetico. Un modo di pensare che influenzerà la parte migliore del cinema britannico, incrinandone l'accademismo, il gusto letterario e, soprattutto la soggezione nei confronti di Hollywood. Questo il quadro, molto sommario, del cinema dell'Europa Occidentale fra la nascita del sonoro e la seconda guerra mondiale, un panorama tutt'altro che lineare ove le assonanze culturali non collimano per niente con quelle politiche.