Cinema europeo fra le due guerre

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Cinema europeo fra le due guerre
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Cosa succede nel vecchio continente negli anni del trionfo industriale di Hollywood?

Cinema europeo negli anni del regno di Hollywood Riflettere sul cinema dell'Europa Occidentale, fra la nascita del sonoro e la seconda guerra mondiale, significa, prima d'ogni altra cosa, dividere il campo d'analisi in due parti. Sono gli anni in cui il potere di Hollywood si afferma come punto di riferimento mondiale, mentre il quadro del vecchio continente assume tratti contrapposti. Su un versante ci sono i regimi autoritari, sull'altro le democrazie parlamentari. Diciamo subito che queste ultime non costituiscono la maggioranza. Rientrano in questo campo, seppur con situazioni molto diverse: Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Cecoslovacchia, Scandinavia, Svizzera, Austria (sino al 1938). Sul versante opposto ci sono i paesi retti da regimi dittatoriali, quasi tutti d'ispirazione nazionalista o nazifascista. Sono: Austria (dopo il 1938), Portogallo (dal 1926), Spagna (dopo la guerra civile 1936 - 39), Italia (dal 1922), Germania (dal 1933), Ungheria (dal 1920), Grecia (dal 1935), Polonia (fra il 1926 e il 1935).
Differenze che, assieme alle peculiarità sociali, economiche e culturali di ciascun territorio, influenzano profondamente anche il cinema. Nell'area delle dittature prevalgono, quali valori di riferimento, il nazionalismo, la propaganda bellica, il culto dell'agiografia storica quale giustificazione del presente, l'esaltazione religiosa. Quest'ultima è particolarmente presente nelle cinematografie iberiche. Qui l'appoggio fornito dalla chiesa cattolica, all'ascesa al potere e al consolidamento dello stesso, è ripagato da Franco e Salazar anche con il tentativo di varare un cinema di propaganda religiosa legato al peggior tradizionalismo. In Spagna, prima della guerra civile, il cinema aveva conosciuto una certa fioritura intellettuale, sorretta da quella che sarà definita "la generazione del 1927". In questo quadro Luis Buñuel crea il primo cineclub (1928) e, nel 1932, dirige quel capolavoro di denuncia sociale che è "Las Hurdes", documento straziante delle misere condizioni in cui vivono gli abitanti dell'Estremadura. Il film ebbe un destino singolare. Censurato e proibito quando fu realizzato, sarà riscoperto negli anni del franchismo, ribattezzato "Tierra sin pan" (Terra senza pane) e sfigurato da un commento finale che segnalava come quelle fossero le condizioni del paese prima del trionfo del nuovo regime che, invece, aveva posto fine a tanta miseria e degrado. Davvero un bello scherzo per l'anarchico "Don Luis"! In generale il cinema spagnolo del periodo prefranchista mostra una predominanza di commedie leggere, alcune delle quali ottengono un consistente successo di pubblico. Lo testimoniano gli ottimi incassi raccolti dal musical "La verbena de la paloma" (La verbena della colomba, 1935) di Benito Perojo e dalla commedia "Morena clara" (Bruna chiara, 1936) di Floriàn Rey, due cineasti che aderiranno al franchismo e che, durante la guerra civile, emigreranno in Germania. La guerra scatena una vera marea di film militanti. Fra il 1936 e il 1939 si contano 25 lungometraggi e 350 documentari, cifre considerevoli per una nazione preda della guerra civile e spaccata in due. Fra questi film politicamente impegnati ve ne sono anche di curiosi. E' il caso dei film anarco - sindacalisti: "Nuestro culpable" (Il nostro colpevole, 1937) di Fernando Mignoni, "Barrios bajos" (Quartieri bassi, 1937) di Pedro Puche, "Aurora de esperanza" (Aurora di speranza, 1938) di Antonio Sau, "!No quiero…no quieto!" (Non voglio… non voglio, 1938) di Francisco Elias. Con la vittoria del franchismo il cinema è affidato al controllo della commissione per la propaganda dislocata presso il Ministero dell'Interno e sottoposto a doppia censura, sulle sceneggiature e sulle opere finite. Bastano queste poche informazioni per segnalare quanto il clima sia cambiato. I modelli diventano le cinematografie italiana e tedesca. Lo stesso Caudillo scende in campo, scrivendo il soggetto del film "Raza" (Razza, 1942), che sarà diretto da Josè Luis Saenz de Heredia. Un cinema razzista, bigotto e nazionalista, quasi totalmente assistito dallo Stato, anche se, formalmente, la produzione resta un'iniziativa privata. In questo si nota una dominanza, come vedremo, più del modello italiano che di quello germanico. In Portogallo la tendenza isolazionista è accentuata dal salazarismo che, in modo ancor più spinto degli altri totalitarismi europei, tende a rinchiudere il paese nei suoi angusti confini, guardando con sospetto ad ogni intrusione dall'esterno. In questo periodo il cinema lusitano è un miscuglio di commedie popolaresche o rievocazioni di un glorioso passato, più immaginario che reale. Fanno parte del primo gruppo film come "A Aldeia da Roupa Branca" (Il villaggio della biancheria bianca, 1938) di Chianca de Garcia, "O pai tirano" (Il padre tiranno, 1941) d'Antonio Lopes Ribeiro. Tipico del secondo gruppo è "Bocage" (1937) di Leitao de Barros. Ben più interessante la situazione italiana. Quanto avviene a Roma, infatti, segnala due punti molto importanti. Il primo riguarda la precedenza del fascismo sugli altri regimi dittatoriali europei. Benito Mussolini diventa primo ministro nell'ottobre del 1922 e trasforma il suo governo in dittatura fra il 1924 e il 1926. La sua tirannia dura sino al luglio del 1943, con la grottesca appendice della Repubblica Sociale Italiana (1943 - 45), un protettorato su alcune regioni dell'Italia settentrionale esercitato grazie alla protezione dell'esercito tedesco. Questo significa che, anche da un punto di vista cinematografico, il fascismo costruì il modello più completo di apparato funzionale al regime. Lo stesso Hitler dichiarò in più di un'occasione di aver preso esempio dal "camerata" italiano e questo, purtroppo, non solo in fatto di film. Il secondo elemento interessante è che le basi della politica cinematografica del fascismo hanno due poli d'attenzione: il modello produttivo Hollywoodiano e quelli del cinema rivoluzionario russo. N'è un esempio il complesso produttivo di Cinecittà, inaugurato nel 1937, dopo essere stato edificato, a tempo di record, sulle ceneri di alcuni vecchi stabilimenti misteriosamente andati a fuoco. Il progetto era del direttore generale per la cinematografia Luigi Freddi e doveva costituire una sorta di "Hollywood sul Tevere", come fu annunciato più volte. Lo stesso Freddi aveva pensato l'intero settore cinematografico sulla base dell'esperienza fatta nel corso di un lungo viaggio negli Stati Uniti. La cosa non funzionò perché i produttori fecero resistenza e costrinsero il Duce ad allontanare il potente funzionario. Si comportarono in questo modo non per spirito antifascista, ma perché gelosi della libertà di fare affari e arricchirsi lontano da occhi indiscreti. Ne nacque una sorta di baratto: la produzione avrebbe sfornato opere non contrarie al regime, i pochi film d'aperta propaganda erano andati incontro a rovinosi fallimenti, mentre lo Stato avrebbe sovvenzionato generosamente il settore. Il meccanismo individuato fu quello degli aiuti proporzionali all'ammontare degli incassi ottenuti in sala. In questo modo il regime si garantiva una cinematografia conformista e impegnata nella ricerca del consenso del grande pubblico, mentre i produttori vedevano ulteriormente rimpinguati i loro guadagni. Fu il trionfo di un cinema leggero, comico, spensierato, che aveva poco a che fare con i problemi del paese. I film drammatici ebbero scarsa fortuna, sia per la riluttanza del regime a mostrare qualsiasi forma di disordine, sia perché si temeva che attraverso il cinema circolassero idee sgradite al potere. Non si deve dimenticare, infatti, che durante il fascismo era vietato ai giornali dare spazio a delitti, incidenti gravi o fatti di sangue. Mussolini voleva diffondere nel mondo l'immagine di un paese ordinato e felice, in cui regnavano il patriottismo e l'entusiasmo. Il cinema dei "telefoni bianchi" fu il perfetto ambasciatore di questa ideologia. Si chiamò così perché questi film erano ambientati in un paese indefinito, in genere una vaga Ungheria, fra ceti sociali benestanti che si muovevano in arredamenti pseudomoderni, dominati da candidi apparecchi telefonici. Intendiamoci, non era un cinema totalmente disprezzabile, poiché vi lavorarono registi abili e attori di grande personalità come Vittorio De Sica. Tuttavia il senso complessivo dell'operazione era sintetizzabile nell'invito a "non disturbare il manovratore". La seconda vocazione, parzialmente contraddetta dalla prima, era quella di "fare come in Russia"; costruire un cinema molto motivato da un punto di vista ideologico che funzionasse da supporto propagandistico al regime.