Difficile valutare un film in cui dalla prima all’ultima scena si percepisce la buona volontà di tutti, ma che rappresenta un fallimento narrativo come pochi. Serioso nello sviluppo, non riesce a dialogare col pubblico a causa soprattutto di una sceneggiatura che difficilmente racconta – o giustifica – quello che passa sullo schermo.
Sembra un’opera prima fatta da chi pretenda troppo dalle proprie capacità, invece Giovanni Galletta ha già realizzato due lungometraggi – l’indifendibile Dopo Quella Notte (2010) ed il poco convincente Il mistero di Laura (2012) – che avevano di base lo stesso difetto di scrittura. Continua a volere sceneggiare da solo, a non farsi affiancare da altri, magari meno originali di lui, ma capaci di fornire coesione a quanto pensato. Dotato di una discreta tecnica registica, cerca preziosismi quali le tonalità delle immagini che, alla lunga, disturbano. La colonna sonora è invasiva e tenta di fornire cemento per la costruzione di una storia che sarebbe difficile da portare avanti anche per autori maggiormente esperti. Pochi personaggi e poco credibili, delineati in una esteriorità assolutamente priva di interesse: le figure rimangono tali, mai ambiscono a divenire personaggi e, per di più, sono abbozzate a colpi d’ascia caricandole di tutti i luoghi comuni possibili. L’impressione è che l’autore abbia visto molto cinema e che questo gli serva da fonte ispirativa. Peccato che non abbia trovato i titoli corretti da cui imparare o, forse, la capacità di rendere suo quanto già raccontato da altri suoi colleghi. Crampo dello scrittore per il protagonista, prete moderno che ospita una prostituta di cui s’innamora e immediatamente la fa spogliare nuda (la crisi di vocazione peggio raccontata che si ricordi), un clochard misterioso che tale rimane perché tanto si dice di lui ma poco si capisce, l’amore del giovane letterato per la figlia del senzatetto carico di ridicoli dialoghi semi romantici. Non solo, per giustificare certe scelte narrative, l’uomo scrive ma è anche proprietario di un avviato ristorante e ha una madre che con la sua figura tenta di creare qualcosa che giustifichi quanto solo pensato nella sceneggiatura. E poi, il giallo di una rapina, i nudi senza logica della pur interessante Silvia Quondam, le trasformazioni repentine dei vari eroi che sbilanciano non poco lo spettatore. Vi sono anche alcune imperfezioni nella parte tecnica create – probabilmente – dal basso budget ma non per questo giustificabili. Il barbone è un Bruno Crucitti teatrale nella recitazione, raffinato nel parlare e assolutamente poco credibile. Quando poi gli fanno indossare un passamontagna in cui rimane scoperto gran parte del viso (ad esempio, la folta barba) viene proprio voglia di chiedersi se è una scelta narrativa o un errore. Alberto Tordi è il prete dalla repentina crisi, Emanuele Bosi trasformato in intellettuale con occhiali e barba appena accennata, Giulia Anchisi legge la sceneggiatura senza mai fornire spessore alla figlia di Crucitti, nonché fidanzata di Bosi. L’impegno di tutti si sente ma i risultati sono a tratti devastanti, soprattutto per l’apporto del regista che non sa guidare gli attori e non è ancora in grado di scrivere una storia quantomeno credibile. Un giovane scrittore in crisi, durante una corsa di allenamento perde i sensi, viene aiutato da un barbone a cui rimane riconoscente e che possiede un quadro che evoca in lui ricordi della fanciullezza. Lo frequenta, vorrebbe aiutarlo ma la filosofia di vita del uomo non gli permette di farlo. Chiede per la figlia, che vive ospitata in canonica, un lavoro ed il giovane la fa assumere nel suo ristorante innamorandosene. Da questo momento tutto si complica e molte certezze si perdono nel nulla.