The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels è uno di quei film impastati di buonismo costruiti in modo di piacere – meglio di sperare di piacere – a quanti più spettatori possibili. Attraverso la storia di Cecil Gaines, un nero che ha servito come domestico alla Casa Bianca sotto otto presidenti (Harry Truman, Dwight D. Eisenhower, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter e Ronald Reagan) il film dovrebbe coniugare una vicenda personale a un vasto quadro di storia americana.
Il racconto prende spunto da un articolo pubblicato sul giornale The Washington Post a firma di Wil Haygood (A Butler Well Served by This Election – Il maggiordomo ben usato da queste elezioni) e dedicato a Eugene Allen (1919 – 2010) impiegato alla Casa Bianca per più di trent'anni con funzioni di sempre maggiore responsabilità, da quelle di lavapiatti a incarichi più importanti sino a diventare il maggiordomo personale del Presidente. Nel film il nome del protagonista è stato cambiato in Cecil Gaines, ma rimane l’intento di raccontare un lungo periodo di storia attraverso la vicenda di un singolo uomo. E su questo versante che il film manca clamorosamente il bersaglio. Il racconto è preciso nei dettagli biografici, ma perde terreno su quelli sociali ridotti ad aneddoti e a macchiette ritagliate a colpi d’accetta. Si vedano le parti dedicate ai destini dei figli, uno morto nel corso della sciagurata guerra del Viet Nam l’altro diventato deputato, dopo essere passato attraverso la lotta non violenta predicata dal pastore protestate Martin Luther King (1929 – 1968) e la contestazione armata sostenuta dalla Pantere Nere (Black Panther Party for Self-Defence), storica organizzazione rivoluzionaria afroamericana d’ispirazione marxista-leninista-maoista. Due destini che dovrebbero incarnare le diverse facce della lotta dei neri per la piena integrazione, ma che qui assumono una pura funzione di contorno alla vicenda del maggiordomo. In altre parole un film reticente e furbastro.