The Imitation Game (Il gioco dell’imitazione) del regista norvegese, attivo in Gran Bretagna con investimenti americani, Morten Tyldum offre sin dalle prime immagini almeno due paini di lettura. Il primo ruota attorno alla biografia di Alan Turing (1912 – 1954) il matematico e crittografo inglese a cui si devono alcune delle idee base per la costruzione e il funzionamento dei moderni computer, nonché la decifrazione dei messaggi nazisti trasformati in testi illeggibili dalla macchina Enigma.
Un personaggio di grande rilievo scientifico che il sistema penale britannico spinse al suicidio a soli quarantun anni dopo averlo obbligato a scegliere fra galera e castrazione chimica. Questo studioso viveva la propria omosessualità nell’angoscia (la cancellazione di questo reato avvenne solo nel 1967). Un'ansia che si sommava all’imposizione del segreto di stato sulle attività svolte dal suo gruppo in periodo bellico. Il secondo versante, raccontato nel film utilizzando una struttura narrativa a flashback, segue il processo di costruzione della macchina chiamata Christopher (colui che porta Cristo, nella realtà battezzata in seguito macchina di Turing) quale perfezionamento del marchingegno Bomba ideato in Polonia nel 1932 da Marian Rejewski (1905 – 1980). E’ un percorso umanamente e culturalmente impervio costellato dai conflitti con militari e burocrati che costrinsero lo studioso, dal carattere decisamente asociale, a rivolgersi direttamente al premier Winston Churchill (1874 –1965) per ottenere autorizzazione e finanziamenti per proseguire il lavoro. Su questi due piani si sviluppa una storia, raccontata con moduli visivi tipici del cinema inglese classico, in cui la persecuzione omofobica si salda col militarismo più becero. A risultarne stritolato è il senso d’indipendenza e originalità della persona, il tutto nel nome di una società che non si sa se definire più oppressiva o moralista.