Il cinema americano è zeppo di strane copie che superano le iniziali incomprensioni per approdare a una sostanziale solidarietà e affetto. St. Vincent, primo lungometraggio del produttore e sceneggiatore Theodore Melfi, è uno di questi.
Vincent è un ex militare, decorato per le azioni compiute in Viet Nam, che ora sopravvive malamente fra colossali bevute, debiti di gioco, fugaci congressi carnali con una prostituta est europea incinta. Sua nuova vicina di casa è una robusta infermiera che si è appena separata dal marito e deve mantenere un figlio gentile e delicato. L’unica soluzione è quella di usare l’anziano come una sorta di baby sitter utile per portare e andar a prendere il ragazzo da scuola, tenerlo a casa il pomeriggio, fargli fare i compiti. Solo che l’anziano intende la cosa in modo del tutto diverso: porta il giovane alle corse, gli fa conoscere gli strip bar, gli insegna a difendersi dai bulli che lo angariano a scuola. In realtà il maturo ex combattente ha un cuore d’oro: assiste da mesi la moglie malata terminale, aiuta il piccolo, offre utili consigli alla donna. In questa situazione è ovvio che ogni cosa finirà in gloria, con l’uomo che accetterà di ospitare la ragazza allegra con il figlio appena nato e offrirà una solida sponda sia alla corpulenta vicina, sia al ragazzo. Quest’ultimo lo ripagherà indicandolo, nel saggio di fine anno, come il santo laico a cui più è devoto. E’ un film buonista e del tutto privo di motivi di vero interesse, prevedibile e inutile come pochi.