Lech Wałęsa (1943) è stato uno degli artefici dell’uscita della Polonia dal blocco sovietico. Ha partecipato agli scioperi dei 1970, in cui furono uccisi più di ottanta operai, ha fondato il sindacato, al tempo illegale, Solidarność (Niezależny Samorządny Związek Zawodowy - Sindacato Autonomo dei Lavoratori Solidarietà) e, fatto particolarmente importante, è stato l’anima degli scioperi che travolsero i cantieri di Danzica (Gdańsk) nel 1980 innescando, nel 1990, la caduta del regime che fu il primo a dissolversi dell’Europa dell’Est.
Il quasi novantenne Andrzej Wajda rende omaggio a questo straordinario personaggio con un film, Wałęsa: l’uomo della speranza, che non va oltre la biografia esaltativa. Gli anni in cui ha operato è si è imposto quest’elettricista di Danzica, che assunse la carica di presidente della repubblica polacca fra il 1990 e il 1995, son stati densi di eventi e fatti anche contradditori. Ad esempio, la caduta dell’impero e la dissoluzione dell’Unione Sovietica ebbero effetti positivi, ma innescarono anche il trionfo di un liberismo selvaggio, effetto delle ricette formulate dalla tristemente famosa scuola economica di Chicago, che incise profondamente sulla società, creando enormi disparità sociali ed economiche. Nacque un ceto di superricchi a cui si contrappose un impoverimento generalizzato della popolazione con effetti persino peggiori di quelli causati dalle politiche del socialismo reale. Di tutto questo nel film non vi è traccia e il quadro appare segnato dalla contrapposizione manichea fra buoni (gli operai e il loro leader) e cattivi (i comunisti e, in particolare, i funzionari degli apparati di repressione). In questo modo la regia costruisce un panorama costellato di santi e demoni, ma mette da parte, intenzionalmente e colpevolmente, la complessità del reale.