Bennett Miller, un regista americano che si era già fatto apprezzare nel 2005 con Truman Capote - A sangue freddo (Capote), ritorna alla carica con un film che è molto più interessante di quanto sembrerebbe a prima vista. Seguendo le orme del libro Michael Lewis Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game (Soldi dalla palla: l’arte di vincere in un gioco sleale, 2003) il regista racconta, ambientandola nel 2001, la vicenda del General Manager degli Oakland Athletics, una squadra di baseball di media classifica i cui proprietari pensano più a vendere i giocatori migliori, guadagnandoci su, piuttosto che a scalare mete sportive.
Un giorno incontra, quasi per caso, un giovane laureato in economia che gli prospetta una teoria del tutto opposta a quella che vuole i grandi campioni quale unico motore di un’equipe di successo. E' meglio avere a disposizione un gruppo statisticamente compatto, che pochi assi solitari. La cosa lo convince e induce a modificare radicalmente la struttura della squadra, anche a costo di scontrarsi duramente con i dirigenti del team. Il film è interessante per almeno un paio di motivi: ci mostra dall’interno i meccanismi economici che regolano e condizionano lo sport professionistico e avvia una riflessione non banale sulla struttura della società. Il primo tema, per quanto non originalissimo, ha il pregio di portare alla ribalta ciò che sta dietro a quello che accade in campo. Vale per il baseball come per il calcio o qualsiasi altro sport. Il secondo argomento ha una valenza ancora maggiore, mettendo a confronto una mentalità che punta al successo individuale e una che guarda con ben maggiore attenzione ai risultati di squadra. Se poi si vuole essere particolarmente fantasiosi, potremmo anche dire che si tratta di una metafora su uno scontro sociale fra chi postula un individualismo assoluto e chi guarda con attenzione alla società nel suo complesso.