Orfeo Rave, nato dalla collaborazione tra Emanuele Conte e la compagnia Balletto Civile, verrà certamente ricordato come una delle produzioni più ambiziose e rischiose del Teatro della Tosse. Nel suo fondere danza e mito, lo spettacolo appare inoltre come il punto d’arrivo di un percorso di ricerca sviluppatosi da un lato con le rivisitazione di classici della letteratura teatrale e dall’altro con il crescente coinvolgimento della coreografa e attrice Michela Lucenti.
Dopo Antigone, Caligola e Prometeo, è dunque la volta delle figure di Orfeo ed Euridice, già sottoposte nei secoli a infinite rielaborazioni teatrali e letterarie. La vicenda è nota. Morsa da un serpente mentre tenta di sfuggire al pastore Aristeo, la ninfa Euridice muore e finisce nell’Oltretomba. Il poeta Orfeo, suo sposo, convince Ade e Persefone a dargli un’opportunità per riportarla in vita. Viene però posta una condizione che si rivelerà fatale: Orfeo non potrà guardare Euridice finché i due saranno negli Inferi. Perché Orfeo si volta indietro? Nello splendido Lei dunque capirà (2006) di Claudio Magris, è la donna a chiamare l’amato per impedirgli di tornare nel mondo dei vivi a cantare la verità sull’amore e la morte. Anche in questa fascinosa riscrittura dei due registi e della drammaturga Elisa D’Andrea ritorna il sospetto che in fondo Orfeo ami se stesso più di ogni altra cosa e che a spingerlo a girarsi verso Euridice sia soprattutto la volontà di liberarsi di un dolore che ha ormai ben poco a che fare con la sfortunata ninfa. Il suo egoismo merita una punizione e, non a caso, lo spettacolo viene strutturato come un viaggio verso l’espiazione, verso lo smembramento del poeta da parte delle Baccanti vendicatrici. Si penetra negli Inferi, insieme ai personaggi. L’apparato scenico, con impalcature, pedane, tendaggi, schermi e pile di casse stereo, sfrutta al massimo la profondità e le ombre del padiglione Jean Nouvel della Fiera del Mare, le sue colonne grigie e le vetrate aperte sul mare. La regia divide il racconto in nove quadri, corrispondenti ad altrettante stazioni, che costringono il pubblico a muoversi, più o meno rapidamente, da un angolo all’altro dell’inedito Aldilà di cemento. La plastica coreografia di un passo a due si alterna al caos di una cerimonia voodoo, mentre si è chiamati a destreggiarsi – anche emotivamente – tra le note di un chitarrista mobile che pare uscito da un film di George Miller, i sussurri d’amore e le urla selvagge di donne invasate. Così, in questo rito teatrale a luci basse e volumi irregolari, il percorso è chiaro e definito ma, complici l’oscurità, gli echi della musica e i riverberi, sembra costantemente perdere linearità, spingendo lo spettatore ad assecondare un movimento avvolgente, generatosi nel buio. Forse il cuore dell’esperienza consiste proprio nel lasciarsi trascinare in una dimensione chiusa e misteriosa, dove le parole perdono senso e al termine della quale, in attesa della luce del sole e dei dubbi che l’accompagnano, può esserci solo la certezza amara di un finale tragicamente esplosivo.