Chiquito & Paquito, presentati la prima volta in Avanzi (1993), di cui in gran parte era creatrice ma anche conduttrice Serena Dandini, erano i protagonisti di parodie sulle telenovele. A dare vita a questi personaggi i coetanei Massimo Olcese e Adolfo Margiotta (classe 1957), entrambi diplomati alla scuola del Teatro Stabile di Genova, il primo nato nella nostra città, l’altro a Torre del Greco.
Facevano divertire in maniera intelligente, coinvolgevano in un cabaret innegabilmente originale. Del resto, anche con Siamo due spermatozoi (dai loro dialoghi era nato nel 2000 un bel libro edito da Rizzoli) erano riusciti a creare un mondo kafkiano in cui si muovevano abilmente. Due attori capaci di affrontare con la stessa bravura i classici del teatro e l’ilarità del cabaret senza dimenticare il cinema: l’ultimo lavoro per entrambi è stato Hammamet (2020) di Gianni Amelio. Nel frattempo, sono cresciuti artisticamente e, come è giusto che fosse, hanno trovato il modo di esprimersi anche singolarmente: Fatevi sentire, vi chiamo io, l’ultimo lavoro scritto e interpretato da Margiotta, ne è un esempio di notevole qualità. Da un anno in tournèe per l’Italia, giunge al Teatro della Tosse ben rodato, capace di fare vivere in maniera completa il dramma esistenziale, pur attraverso tante risate, di un uomo di successo. Sono 60 minuti sempre coinvolgenti in cui propone 18 personaggi che, assieme, creano un microcosmo che può apparire poco probabile o impossibile solo per chi non riesce a dimenticare il proprio mondo per immedesimarsi in quello di Boves, top manager costretto ad abbandonare in seconda fila la sua McLaren bloccata nel traffico per raggiungere il luogo dove firmerà l’ennesimo contratto milionario con i giapponesi. Scende nella Metro e, in questa maniera, entra in contatto con varia umanità di cui forse non conosce l’esistenza o, meglio, che lui campano di nascita e di umili origini ha cercato di dimenticare trasformandosi in milanese. Raggiunge correndo il marciapiede per vedersi sfrecciare davanti uno sferragliante treno. Intanto lo attendono e lui è sempre più teso: parlando al cellulare col suo socio dice Non sono in ritardo, è la vita che mi trattiene. In questa frase c’è disagio, fa sorridere ma si inizia a capire il dramma di un uomo che in apparenza ha tutto dalla vita, che ha accettato un compromesso dietro l’altro pur di divenire ricchissimo; ad esempio, voleva diventare scrittore e si è trasformato in cinico che manda sul lastrico centinaia di lavoratori senza apparenti complessi di colpa. Non riesce a stare fermo ma non passeggia, percorre un tracciato fatto di linee che solo lui vede e che dimostrano anche in quel momento la sua necessità di fare qualcosa che assomigli al lavoro. Mentre sfrecciano altri treni senza fermarsi o che lui perde scientemente per parlare con una delle persone che ha incrociato, si rende sempre più conto di sentirsi un fallito, un uomo che ha tutto tranne una vita che lo soddisfi. Il tempo per un esame di coscienza non manca e lui diventa sempre più pieno di dubbi. All’inizio incontra il suo alter ego meridionale che lo costringe a prendere atto di tante cose, non ultima dell’infedeltà della moglie e di un figlio che assomiglia fisicamente molto al suo socio. I personaggi che popolano la stazione della Metro lo portano sempre più nel mondo del disagio, che sia una nonnina ninfomane o un mastino napoletano che parla e gli dona pillole di saggezza, uno pseudo monaco tibetano che si rivela essere borseggiatore calabrese o un gelosissimo marito che tiene segregata la moglie. Con lentezza, che provoca nel protagonista ulteriore tensione, si racconta della frenesia di chi vive nel rincorrere il tempo di cui non conosce più il valore. L’unico personaggio che non lo delude è un orsetto di peluche abbandonato su di un sedile con cui inizia un’auto-confessione che lo aiuta a ricordare anche momenti belli della sua vita. Con lui di colpo si ferma il tempo (gli orologi si bloccano) e capisce molto della sua esistenza umanamente inesistente. Sul palcoscenico, in questa maratona da one man show Margiotta non è solo: oltre al morbido confessore che tiene anche in braccio c’è la voce della speaker della Metropolitana che non si limita a formulare i convenzionali annunci ma ad interagire con il manager in maniera molto critica. Brava la giovane regista Paola Ferrando che amalgama tutto in uno spettacolo privo di effetti speciali ma ricco di grande umanità.