Quarto dei cinque spettacoli inseriti nell’ambito della XXIV edizione della Rassegna di Drammaturgia Contemporanea, Rob è il testo più impegnativo visto fino ad ora, con una drammaturgia complessa e lo sviluppo narrativo che pesa unicamente sulle spalle del giovanissimo e bravo Simone Cammarata in un tour de force di 90 minuti; come unico supporto ha il particolare sound creato da Taru (Ruggero Lambo) che sottolinea e crea stacchi tra un personaggio e l’altro. E’ il primo monologo per il ventiquattrenne siciliano, fresco della Scuola del Teatro Stabile che aveva già fatto bene lo scorso anno ne Il cerchio Rosso di Vitaliano Trevisan con la regia di Massimo Mesciulam: ma in quella occasione sul palcoscenico aveva altri quattro compagni di ventura.
Qualche piccola indecisione si nota, ma trasformarsi in una decina di personaggi solo con l’aiuto della voce e della mimica è impresa davvero complessa. Oltretutto, Mesciulam, a nostro avviso, aveva meglio saputo intendere il testo a lui affidato che non questa volta Alberto Giusta, creando una commedia di assoluto interesse. Anche quello era uno spettacolo proposto durante la Rassegna di drammaturgia, ma sicuramente con una costruzione più facile da seguire. Giusta, bravissimo attore e regista genovese diplomatosi presso la Scuola di Recitazione del Teatro Stabile nel 1995 dove attualmente insegna anche recitazione come collaboratore esterno, è eclettico tanto da passare dall’interpretazione nel ruolo di protagonista di Don Matteo 11, al cinema e, ovviamente, al teatro suo grande amore. Qui l’impegno era davvero arduo – il budget costringe a limitare eventuali trovate a livello di realizzabilità – e si ha l’impressione che i vari personaggi a volte si confondano fin troppo tra loro, costringendo il pubblico ad un’attenzione assoluta per riuscire ad intendere tutto o quasi tutto. Simone caratterizza alcuni personaggi con l’utilizzo di un microfono ad asta che dona toni diversi alla voce; altri si mescolano in una chiacchierata in cui tutti parlano di Rob, personaggio misterioso morto, forse ucciso; ma potrebbe anche non essere mai esistito. Una nascita difficile – il feto era in posizione podalica ed era rimasto 5 anni nella pancia della madre con un piede che sporgeva fuori – una vita violenta in cui le varie uccisioni da lui procurate (anche quella dei genitori) faceva di lui un giovane quantomeno problematico: amato ed odiato, capro espiatorio e assassino senza cuore, amante dell’esteriorità con una vita che sapeva lo avrebbe portato a morte prematura. Ognuna delle persone che lo racconta lo vede in maniera diversa, forse alcuni non lo hanno nemmeno conosciuto, addirittura sorge il dubbio che in questo coro (riferimenti alla tragedia greca sono presenti, anche se mischiati col grottesco) ci possa essere anche Rob. Autore del testo il quarantaduenne Efthymis Filippou sceneggiatore e attore greco, noto soprattutto per le sue collaborazioni col regista Yorgos Lanthimos – con cui ha collaborato per Dogtooth – Dente di cane (Kynodontas, 2009), Alps (Alpeis, 2011), The Lobster (2015) nominato agli Oscar, Il sacrificio del cervo sacro (The Killing of a Sacred Deer, 2017) – ma anche per i suoi testi teatrali di cui Rob (2017) è il sesto e più recente. Filippou anche in questa occasione ha saputo bene mischiare il dramma con momenti più rasserenanti, dimostrando di essere davvero bravo: nell’edizione genovese ogni tanto sfugge questo dualismo creando scompensi nello sviluppo narrativo.