Mancano quattro giorni al 25 dicembre e Harry, un single inglese di mezza età, attende in un confortevole appartamentino piccolo-borghese che qualche suo conoscente – un vecchio amico, un ex collega, un amore del passato – si ricordi di lui e lo contatti per augurargli buon Natale.
Le ore che lo separano dalla festività sono snervanti: un misto di apprensione, disgusto e rabbia per sé stesso e per il resto del mondo. Contando i pochi biglietti di auguri natalizi ricevuti e osservando il telefono con paura e incertezza, Harry si scontra con la propria impotenza, con la dolorosa evidenza del proprio fallimento nei rapporti con il prossimo. Arrivato finalmente il giorno tanto temuto, non gli resta che annullarsi in un sonno eterno. Sarcastico monologo di inarrivabile spietatezza, Il Natale di Harry di Steven Berkoff - già enfant terrible del teatro britannico anni settanta e poi comprimario di lusso in molti film commerciali americani degli anni Ottanta e Novanta (Beverly Hills Cop e Octopussy – Operazione Piovra su tutti) - è un breve tuffo teatrale nella solitudine urbana la cui struttura drammaturgica coincide sostanzialmente con il conto alla rovescia verso il suicidio del protagonista. In questa nuova produzione della Tosse diretta con ammirevole pulizia da Elisabetta Carosio, il testo – non tra i più memorabili dell’autore di The Secret Love Life of Ophelia, va detto – vale innanzitutto come veicolo per il talento di Enrico Campanati. L’attore genovese, colonna portante del teatro di Piazza Negri, si cala con la consueta generosità in un personaggio programmaticamente sgradevole, controllandone benissimo il deragliamento psichico e facendosi strada con mestiere lungo accidentati percorsi mentali, tra patetici crolli nell’autocommiserazione e improvvisi lampi di dolorosa lucidità. Il suo Harry, depresso cronico egocentrico e logorroico che si macera in una solitudine squallida misurando la propria popolarità in telefonate e cartoline, si impone all’attenzione dello spettatore come il volto spiacevole e nascosto di una contemporaneità arida, costruita sull’ipocrisia, di cui il Natale consumistico costituisce il simbolico trionfo. E il suicidio finale, conclusione in qualche modo prevedibile sin dalle prime nervose battute, non è così che la scontata uscita di scena di un individuo anonimo da sempre incapace di agire con amore e coraggio, e dunque costretto a reagire con debolezza e rassegnazione.