È sempre molto difficile dare un giudizio su uno spettacolo come La favola del principe Amleto. Lo è in quanto vi si intrecciano vari elementi. Il primo è quello di un saggio di diploma degli alunni dell’ultimo anno (più pomposamente definito master) della Scuola Teatrale dello Stabile di Genova.
In un secondo momento si tratta di una messa in scena funzionale al percorso d’insegnamento e che, proprio per questo, ha due vantaggi: può giocare sull’entusiasmo davvero esplosivo dei giovani attori e la possibilità di giostrare su un numero rilevante di interpreti. Due condizioni che difficilmente si ripeteranno in futuro, quando il lavoro si trasformerà, anche, in routine e le esigenze economiche costringeranno i registi a lavorare con un numero ben più ridotto di interpreti. Tenuto conto di queste circostanze, a loro modo uniche, si deve dire che la proposta di Marco Sciaccaluga, così come altre viste in precedenza ad opera di Massimo Mesciulam, ha pienamente soddisfatto pescando nell’esperienza consolidata dello Stabile, ora assunto al ruolo di Teatro Nazionale. Rinunciando, come è tradizione, a scenografie sontuose e facendo tesoro di un semplice insieme di tavoli e di una porta di scena, il regista e adattatore ha scelto di far indossare agli attori per tutta la durata dello spettacolo maschere colte dall’esperienza dello svizzero Benno Besson (1922 – 2006), che fu allievo di Bertolt Brecht, in particolare dal suo passaggio alo Stabile di Genova quando curò la regia de Il cerchio di gesso del Caucaso. In questo modo al regista è possibile utilizzare, nei medesimi ruoli, attori o attrici realizzano una sorta di uguaglianza politico – culturale fra uomini e donne. È una proposta, forse non originalissima, ma funzionale ad uno spettacolo che è anche saggio di fine corso e annuncio di carriere che, se sapranno mantenere almeno in parte l’entusiasmo dimostrato questa volta, si avviano a esiti luminosi. Auguri.