Salomè (14 – 62/71) è stata una principessa ebrea, figlia di Erodiade e di Erode Filippo I, passata alla storia per un episodio narrato nel Vangelo di Marco (6,17-28) e in quello di Matteo (14,3-11), che la vede come protagonista del martirio di Giovanni Battista.
Concupita dal patrigno, Erode Agrppa, che le promise qualsiasi cosa a patto che danzasse per lui, ballò denudandosi progressivamente (La danza dei sette veli). A questo punto chiese la testa di Giovanni Battista, che il Tetrarca aveva fatto imprigionare, ma non aveva osato far uccidere. Il patrigno tentennò, ma alla fine cedette e così la bella principessa poté baciare la lebbra del detenuto che le si era sempre rifiutato. Molti artisti, scrittori, drammaturghi, registi lirici e cineasti si sono interessati a questo personaggio che, con il passare del tempo, è diventato un esempio di lussuria. Luca De Fusco ha usato la tradizione di Gianni Carrera del dramma di Oscar Wilde, che lo scrisse in francese nel 1893, per uno spettacolo robusto sia sul versante degli attori (Eros Pagni, Gaia Aprea) sia su quello della scenografia, anche se quest’ultima appare quasi in forma unica e più funzionale che ricca. Ciò che sconcerta è la mancanza di una precisa chiave di lettura che non sia quella, piuttosto banale, della follia di un vecchio per una fanciulla. Salomè diventa il fulcro del dramma e la morte del profeta è solo sua responsabilità, ma da questo non discende né una precisa responsabilità, né la colpa di un delitto suscitato da un amour fou più detto che vissuto. In altre parole ci traviamo più davanti ad una quieta passione che non a un vortice di sentimenti che conducono sino all’omicidio.