Il cane senza coda costituisce il nuovo capitolo, dopo In The Penal Colony (2015) e Il Maestro e Margherita (2018), della felice collaborazione tra Emanuele Conte e Paolo Bonfiglio, artista visivo di grande talento, stavolta impegnato nella veste di autore teatrale.
Al centro di questo ambizioso spettacolo che, tra freddure, simbolismi, voli onirici e situazioni vagamente beckettiane, fonde teatro e animazione riflettendo con lugubre ironia sia sulla condizione miserevole dell’artista sia sulla precarietà patetica dell’esistenza umana, vi è un poeta (Andreapietro Anselmi) giunto a ora imprecisata in una altrettanto imprecisata stazione ferroviaria per prendere un treno che lo porti via, lontano dal mondo e dai propri fallimenti. Mentre corvi gracchiano nel buio e la voce molesta di un altoparlante riempie l’aria, l’uomo vive l’attesa parlando da solo, lottando con la macchina che stampa biglietti e tentando di intrattenere un’improbabile conversazione con una donna dall’aspetto bestiale (Pietro Fabbri, maschera canina dai più ruoli) seduta su tre valige. L’arrivo dell’agognata locomotiva non farà altro che accelerare la sua dipartita, in una lenta e inesorabile dissolvenza. Nell’enigmatica opera – così viene definita dalla produzione – cui hanno dato vita gli autori tutto sembra funzionare con meccanicità e consequenzialità volutamente forzate, che lasciano poco spazio d’azione al protagonista in scena e, al contempo, ben più di un’incertezza allo spettatore in platea. Malinconia o cinismo? Grottesco o poesia? Triste istantanea di un morituro in viaggio verso l’appuntamento fatale o striscia diseguale di un disegnatore in vena di sarcasmi amari? Visione sfuggita di mano al proprio scherzoso autore ed esauritasi presto in sé stessa o sogno umidiccio e freddo che trascina in un generico altrove senza far muovere di un passo? Di tutto un po’, verrebbe da pensare di primo acchito, specie per via dell’abilità con cui il regista, come sempre anche responsabile delle scene, riesce nel difficile compito di trovare la chiave figurativa, disegnando un limbo sporco e degradato che ben si armonizza con il tratto scuro degli splendidi inserti video e con la scrittura irregolare alla base del testo. Resta alla fine un prolungato senso di straniamento, l’impressione di aver assistito a un qualcosa di contraddittorio, tanto omogeneo e suggestivo dal punto di vista visivo, quanto indefinito, sfocato e forse intenzionalmente monco dal punto di vista della costruzione drammaturgica e concettuale. L’oggetto più misterioso uscito nelle ultime stagioni dalla laboriosa officina teatrale della Tosse fila ineffabile lungo una traiettoria che porta un individuo spuntato dal nulla a farsi riassorbire, dopo poche minime peripezie, da quello stesso nulla, da quello stesso oscuro vuoto che ha così tanti possibili nomi da non poter essere definito, di fatto, in alcun modo.