Lo svedese Johan August Strindberg (1849 – 1912) scrisse e rappresentò Il padre nel 1887 facendone uno dei suoi più diffusi manifesti antifemminili. Un capitano di cavalleria e scienziato dilettante, entra in contrato con la moglie a proposito dell’educazione della figlia.
La donna, travolta dalla violenza del conflitto in cui il marito accampa inoppugnabili (all’epoca) motivazioni giuridiche, gli instilla il sospetto che ha ragazzina non sia figlia sua, ma nata da una relazione occasionale che lei ha avuto con altri. Il militare sprofonda sempre più nel dubbio e precipita in una forma di follia da cui tenta di emergere rifugiandosi nelle braccia della sua anziana nutrice che, invece, si fa complice della moglie e lo lega con una camicia di forza. Gabriele Lavia, in veste di regista e interprete, ha ripreso in mano questo testo collocandolo in una scenografia sbilenca (simbolo della precarietà dei legami familiari), dominata dal rosso sangue dei velluti che coprono la scena quasi interamente. Ne emerge un testo contro le donne, con una tesi di fondo, rimpolpata dall’inserimento del monologo che lo shakespeariano Shylock (Il Mercante di Venezia, 1596 -98) declama in favore degli ebrei, che, in questo caso, è recitato a difesa degli uomini oppressi dalle donne. È questo parallelo a suscitare non pochi dubbi sulla validità della proposta. Altre perplessità nascono da un approccio scenico decisamente fuori tempo e da una lunghezza, oltre tre ore intervallo compreso, decisamente oltre misura. In altre prole appare chiaro come Gabriele Lavia abbia costruito l’intera messa in scena come un’occasione per dare sfogo alle sue doti istrionesche senza preoccuparsi troppo del senso attuale del testo.