Una coppia sta festeggiando il decimo anniversario di matrimonio, tutto è pronto compresa la prenotazione in un ristorantino che piace tanto a lei. Bata una parola di troppo e l’atmosfera si spezza, la donna si chiude in una stanza e l’uomo resta fuori isolato.
Non valgono scuse, minacce, implorazioni, la porta rimane inesorabilmente chiusa. La rabbia del maschio sale e, alla fine lui è pronto per passare a vie di fatto a trasformare una banale lite coniugale in femminicidio. Andrea Lupo ci presenta, con accenti veneto – lombardi, questa escalation di violenza e rabbia rendendola ancor più credibile con un ventaglio di ricordi che spaziano dal padre al nonno del protagonista e che convergono in una visione atavica della donna, meglio della femmina, come una pura appendice e un servizio all’uomo. In questo il femminicidio e, prima ancora, la violenza diventano il simbolo di una perdita di ruolo, uno spodestamento del padrone a cui ora il servo, meglio la serva, si rifiuta di obbedire. L’intento è più che lodevole, ma la messa in scena pecca di un eccessivo didascalismo, da per acquisiti alcuni passaggi che, al contrario, meriterebbero di essere maggiormente approfonditi. Senza contare che la figura femminile, relegata nella semplice citazione delle parole maschili, rimane qualche cosa di non meglio definito, una ribelle di cui mal si comprendono le vere ragioni e le altrettanto vere contraddizioni. Ne risulta uno spettacolo suggestivo, ma in un certo senso monco, una proposta affascinante, ma in parte deludente.