Il malato immaginario è il simbolo più doloroso dell’opera e della morte di Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière (1622 – 1673). Fu, infatti, alla quarta rappresentazione di quest’opera, il 17 febbraio, che l’autore – attore si accasciò sul palcoscenico, stremato dalla fase terminale di un male che, da lì a poche ore lo avrebbe portato nella tomba.
È bene ricordare che nel francese del diciassettesimo secolo il termine imaginaire equivaleva a quello di pazzo. Lo spettacolo fu presentato per la prima volta sul palcoscenico del Palais-Royal il 10 febbraio 1673, dalla Troupe de Monsieur, frère unique du Roi, con le musiche di Marc-Antoine Charpentier (1634 o 1636 – 1704) e le coreografie di Pierre Beauchamp (1631 – 1705). Il copione risente di molti elementi autobiografici tenuto conto che il commediografo aveva una profonda sfiducia nei medici dell’epoca. Vi si racconta del ricco Argante che si crede malato e la cui condizione è sfruttata da alcuni dottori che gli somministrano in continuazione clisteri e salassi che lo debilitano sempre più. Il malato immaginario decide di dare in moglie la figlia Angelica al rampollo di uno dei medici che lo stanno curando con la prospettiva di avere in casa un dottore a sua totale disposizione. La ragazza ama un altro e il forzato matrimonio sarà sventato dalla serva Tonina che, per giunta, riesce anche a svelare l’ipocrisia di Belinda, seconda moglie dell’ipocondrico. Andrée Ruth Shammah ha diretto nel 1980 una versione di questo testo che ora riprende con pochissime modifiche e soprattutto senza una precisa lettura. Ne nasce uno spettacolo di pura routine che maschera con intenti vagamente filologici una sostanziale incapacità o scarsa volontà di approccio originale. Un esercizio di maniera che non aggiunge nulla a ciò che lo spettatore già sa.