Reduce dal successo di Orfeo Rave, il Teatro della Tosse rilancia e prosegue il suo ambizioso viaggio nel mito. Stavolta, a far da base a una nuova reinvenzione dell’immaginario teatrale, vi è un testo del drammaturgo francese Jean Anouilh (1910 – 1987), autore del quale era già stato brillantemente messo in scena Antigone nel 2013.
Eurydice – titolo francese mantenuto anche in questa versione italiana – è una commedia di passione e morte ispirata alla più antica tra le storie d’amore infelici. Rispetto alla riscrittura di Sofocle, primo atto della Trilogia del Potere del teatro genovese, cambia totalmente lo scenario: non più la corte, microcosmo asfissiante in cui si consuma la tragedia, ma una Francia novecentesca, con i suoi locali fumosi, i suoi alberghi a ore e i suoi artisti spiantati. Orfeo (Gianmaria Martini) è un violinista povero in canna che si trascina di città in città con l’anziano padre arpista. Un giorno, al bar di una stazione ferroviaria, incontra Eurydice (Sarah Pesca), figlia della stella di una mediocre compagnia di giro, e tra i due è colpo di fulmine. La nascita inaspettata di un amore irresistibile, all’apparenza del tutto naturale e persino ineluttabile, è la scintilla che innesca, spietato e incalzante, il dramma. La ragazza muore in un incidente e al testardo musicista viene data la possibilità di riportarla in vita, ma gelosia e sospetto spezzeranno irreparabilmente un legame forse impossibile. Nel dirigere questa misteriosa commedia tragica Emanuele Conte rischia molto e punta su un’atmosfera rarefatta, tutta costruita su suggestivi rimandi visivi e sonori ai film francesi del secondo dopo-guerra. La finzione teatrale, per scelta azzardata ma felice, si fonde con l’artificiosità del cinema, avvolgendo nella celluloide e nel fumo di sigaretta un oscuro e archetipico dramma sentimentale capace di attraversare ogni epoca con immutata forza. Eurydice diventa così un incrocio tra Édith Piaf e Jeanne Moreau, mentre le note di Georges Delerue risuonano in sottofondo e i dialoghi sul letto d’amore vengono resi tramite primi piani proiettati in bianco e nero su un’invisibile quarta parete che si fa schermo. Il risultato finale è uno spettacolo di notevole bellezza formale, dominato da quel senso di amaro disincanto che solo il melò cinematografico può generare. Determinante, poi, il contributo degli attori, con menzioni doverose per Enrico Campanati (nella doppia parte del padre di Orfeo e del bieco impresario) e per Fabrizio Matteini, un felpato Monsieur Henri, uomo del destino. Da vedere.