William Shakespeare (1564 – 1616) scrisse e fece rappresentare Otello (The Tragedy of Othello, the Moor of Venice) attorno al 1603, la prima rappresentazione di cui si abbia traccia avvenne l’anno seguente al Whitehall Palace di Londra.
Da quel momento questa tragedia ebbe innumerevoli edizioni teatrali, cinematografiche - famosa quella firmata da Orson Welles (1915 – 1985) e portata a termine, fra mille difficoltà, nel 1952 – e televisive. Carlo Sciaccaluga ne propone ora una piena di apparenti originalità sceniche, ma sostanzialmente fedele al copione. Gli scarti più evidenti sono l’ambientazione all’interno di un esercito non meglio definito, anche se le mostrine sulle uniformi sono quelle dell’armata britannica, in una pausa della guerra con i mussulmani e il personaggio del Doge affidato a una donna. Questo secondo elemento non trova, nel corso della rappresentazione, nessun sviluppo organico, restando a livello di dato occasionale. Per quanto riguarda il blando riferimento alla condizione odierna di confronto fra mondo occidentale e Stato Islamico, l’attualizzazione appare più legata a una visione puramente scenografica che a un’interpretazione precisa. Rimane la messa al centro della scena della figura dell’onesto Jago a scapito di quella del comandante berbero che uccide la giovane sposa subornato dal sottoposto che gli fa credere che la donna lo tradisca con il suo luogotenente. Uno scambio di ottica non nuova nella lettura del testo, una prospettiva da cui Corrado Augias ha tratto un copione messo in scena dal Teatro Stabile di Genova nel 1985. Qui lo spostamento d’attenzione dal moro al suo alfiere non fa parte, tuttavia, di un discorso coerente e innovativo, appartiene piuttosto alla necessità di far emergere la bravura degli attori. In questo senso, Antonio Zavatteri adempie al ruolo in modo perfetto, regalandoci un personaggio ambiguo e variegato quanto pochi.