Con Dipartita finale Franco Branciaroli – autore, regista e interprete – tenta un’operazione quanto mai rischiosa: riscrivere Samuel Beckett (1906 – 1989) in chiave popolare e moderna. Già dal titolo, che riecheggia Finale di partita (Fin de partie – Endgame, 1956), l’intento è chiaro e dichiarato.
Viene poi uno spettacolo che oscilla fra citazioni più o meno dirette di L'ultimo nastro di Krapp (Krapp's Last Tape - La dernière bande, 1958) e Giorni felici (Oh les beaux jours - Happy Days, 1961), passando per alcuni fuggevoli riferimenti a Totò e Pier Paolo Pasolini. In una baracca situata in prossimità della riva del Tevere, in un’epoca imprecisata, vivono tre scarti d’umanità: Pol e Pot che, forse, un tempo sono stati amanti, e il Supino che parla solo con il secondo dei due. Ad essi si aggiunge, a rappresentazione già avviata, La Morte che non vuole falciare gli atri tre in quanto, dopo, non gli resterebbero più esseri umani da uccidere. Risvegliato di colpo dal suo letargo il Supino aggredisce e ammazza La Morte confermando così la sua idea di essere immortale. Nel finale arriva un baldo giovane che guida una pattuglia di operai e ruspe incaricate di spianare l’abitazione fatiscente. E’ un quadro lunare in cui si mescolano suggestioni omosessuali, riferimenti religiosi, dialoghi non sempre chiarissimi. Questo il vero punto di debolezza dell’intera operazione: laddove nei testi del commediografo irlandese anche i momenti più surreali si collocavano all’interno di un discorso complessivamente chiaro, si pensi a Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot (En attendant Godot - Waiting for Godot, 1952), qui a far difetto è proprio la visione d’insieme e la logica di un approccio che oscilla fra compiacimento e autocelebrazione. Unico dato sicuramente positivo l’impiego di un cast di attori di lunga militanza teatrale: Gianrico Tedeschi (96 anni ad aprile), Ugo Pagliai che di anni ne ha quasi ottanta e lo stesso autore e regista che naviga verso i settanta.