Che Neri Marcorè, oltre che un ottimo attore, fosse anche un bravo cantante ce ne eravamo accorti già da Beatles Submarine, in cui si mettevano in scena le elucubrazioni ossessive che opprimevano Mark Chapman, l’assassino di John Lennon.
La cosa trova conferma in questo nuovo spettacolo, Quello che non ho, in cui Giorgio Gallione tenta un nuovo e felice sodalizio fra le canzoni di Fabrizio De André (1940 – 1999) e le visioni lucidamente profetiche di Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975). Su un palcoscenico funzionalmente spoglio e con il sostegno di un trio musicale in cui spicca la bravura vocale di Giua, l’attore sviluppa una sorta di autoconfessione generazionale che mette in luce le intuizioni del poeta nel momento in cui individua nel consumismo e nell’azione omologante e incolta della televisione i mali di una società che si avvia a superare le antiche origini contadine in direzione di un appiattimento barbaro del pensiero e dell’agire. E’ una sorta di teatro – canzone che si rifà alla migliore tradizione inaugurata da Giorgio Gaber (1939 – 2003), un genere che mescola creativamente brani musicali a riflessioni legate all’attualità. L’autore e l’attore seguono questa strada spaziando dalla miniere africane di coltan (metallo indispensabile alla fabbricazione di telefonini e computer) al continente di plastica (migliaia di chilometri quadrati formati dai rifiuti trascinati dalle correnti) che staziona al largo delle Hawaii. Ne nasce un grido di dolore sulla corruzione del mondo in cui viviamo solo parzialmente contradetto, nel finale, dal ritorno della lucciole, quelle stesse di cui P.P.P. aveva lamentato la scomparsa in un celebre pezzo pubblicato su Il Corriere della Sera (primo febbraio 1975, titolo Il vuoto del potere in Italia). Un pizzico di ottimismo e speranza attivato in tempo a lenire un pessimismo davvero universale.