Ivanov è uno dei primi testi teatrali scritti da Anton Pavlovič Čechov (1860 – 1904) che ne ha fatto due edizioni. La prima, commissionata dall’impresario Fëdor Korš, fu messa in scena a Mosca nel novembre de 1887 e fu un insuccesso causato, a detta dello stesso autore, da attori che: non capiscono niente, accumulano sciocchezze su sciocchezze, hanno parti non adatte a loro. Alcuni degli interpreti, poi, andarono in scena la sera della prima visibilmente ubriachi.
Tutto questo costrinse il drammaturgo a rimaneggiare profondamente il copione che fu ripresentato poco più di due anni dopo a Pietroburgo ottenendo, un grande esito di critica e pubblico. Filippo Dini, in veste di attore e regista, presenta una versione di quest’opera in cui dominano i tratti melanconici. Il protagonista è un piccolo proprietario terriero di provincia, una figura che diventerà tipica del teatro cechoviano si pensi a Zio Vanja (Djadja Vanja, 1896) e a Tre sorelle (Tri sestry, 1900), particolarmente immelanconito della sua ignavia e dall’incapacità di resistere alle tentazioni economiche. Ha sposato Anna Petrovna, che per lui ha rinunciato alla religione ebraica inimicandosi in modo irrimediabile i genitori, sperando nella dote della moglie, patrimonio scomparso con l’ira dei suoceri. Ora, morta di tisi la prima moglie, alla quale non ha dato alcun conforto negli ultimi anni della malattia, fa – meglio, subisce - la corte di un’altra ereditiera, Sašha che già in passato si era innamorata di lui. Irresoluto fra convenienza e disgusto per il suo (non) agire sceglie la via più facile: quella del suicidio. La regia imbocca con decisione la strada della rappresentazione classica, non opera tagli significativi, salvo affidare a due attori un paio di parti ciascuno, eccelle solo in alcune scene collocare nella parte finale: quella che precede e contiene il suicidio e la gioiosa presentazione degli attori al pubblico nel finalissimo. Sono due momenti che rivelano le possibilità del regista, ma rimangono sprazzi isolati. A proposito degli attori, c’è da dire che il ricorso a molti giovani diplomati della Scuola dello Stabile genovese in un testo tanto complesso ne mette in luce non pochi limiti d’esperienza, aggiungendo un elemento problematico a un bilancio in cui le parti positive finiscono quasi soffocate da quelle negative.