Morte di un commesso viaggiatore (Death of a Salesman, 1949) è il testo più noto di Arthur Miller (1915 – 2005). Pubblicato quattro anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale il copione è rimasto nella memoria come una denuncia forte e drammatica del fallimento di quello che è stato etichettato come il sogno americano.
Con questa chiave ne sono state costruite numerose versioni teatrali, compresa la prima firmata da Elia Kazan (1909 – 2003), interprete Lee J. Cobb (1911 – 1976). In Italia se ne ricordano varie messe in scena, le più note delle quali sono quella, del 1951, a firma di Luchino Visconti (1906 – 1976), interprete Paolo Stoppa (1906 – 1988), e l’altra, del 1993, con Enrico Maria Salerno (1926 – 1994) quale regista e interprete. E’ ora la volta di Elio De Capitani che propone, anche in questo caso come interprete e regista, una nuova rappresentazione del calvario del sessantatreenne Willy Loman che, dopo una carriere di venditore per una sola ditta, si vede messo da parte e privato del lavoro, questo proprio nel momento in cui le rate degli elettrodomestici e il mutuo sulla casa bussano con urgenza alla porta. Non meno drammatico il rapporto con i figli, su uno dei quali aveva posto grandi speranze, che si rivelano persone del tutto comuni. L’unica via d’uscita è quella del suicidio, mascherato da incidente d’auto onde lasciare alla famiglia il cospicuo premio assicurativo. La nuova versione sposta l’asse del discorso sulla drammaticità delle psicologie degli interpreti, finendo col mettere in secondo piano, nonostante le conclamate intenzioni del regista e interprete, i riferimenti al quadro sociale di ieri e di oggi. Ne nasce uno spettacolo che mette involontariamente in risalto la datazione di un’opera la cui forza è stata abbastanza intaccata dal passare del tempo. Un dato particolarmente negativo è nel ricorso a scene di nudo, maschile e femminile, del tutto avulse sia dalla natura del testo, sia da una sua possibile attualizzazione. Ciò che rimane è un saggio d’interpretazione da parte del protagonista e di Cristina Crippa, prestazioni di spessore notevole anche se più volte sul versante classico che non in direzione autenticamente innovativa.