L’importanza di chiamarsi Ernesto (The Importance of Being Earnest, 1895) è stata una delle commedie di maggior successo dello scrittore e drammaturgo Oscar Wilde (1854 – 1900). Un esito favorevole che oggi lascia perplessi visto che, nella sostanza, il testo ricicla argomenti molto usati in teatro, dai classici greci e romani a Carlo Goldoni (1707 – 1793) ai commediografi boulevardier di fine ottocento. In primo luogo il meccanismo dell’agnizione, per cui un orfano messo quasi ai margini della società riacquista rispettabilità e risorse quando si scopre che, in realtà, si tratta del rampollo di una ricca famiglia.
C’è, poi, il meccanismo non meno utilizzato dello scambio di identità con sostituzione di un personaggio con un altro. In realtà l’unica ragione del passato successo di questo testo sembra collocarsi in una visione farsesca e graffiante dei comportamenti della nobiltà inglese in un’epoca che alternava, quasi senza soluzione di continuità, perbenismo esasperato a uso pubblico a cupidigia privata. La storia racconta di due giovani che si presentano entrambi con il nome di Ernesto (in inglese Ernest (nome proprio) ha praticamente lo stesso suono dell’aggettivo earnest (onesto) e che s’innamorano di due fanciulle particolarmente attratte dal loro nome. La versione diretta e interpretata da Geppy Gleijeses non si discosta dai soliti blandi contrasti di classe, con una Lucia Poli in gran forma nel tratteggiare una Lady ipocrita quanto economicamente sensibile, destinati a conciliarsi in un lieto fine facilmente prevedibile sin dalla prime battute. Un’edizione che non aggiunge nulla alle numerose proposte teatrali e cinematografiche viste in precedenza e si segnala solo per la correttezza professionale degli interpreti con il regista e attore che riesce a rendere accettabile lo scarto fra la sua età anagrafica con quella del personaggio, anche se non disdegna di ricorrere alle caccole che marcano da sempre il suo agire teatrale.