Francesca è in età da marito. Il suo fidanzato si è rifiutato di sposarla e ora lei è sola, in ansia, mentre le amiche di sempre si stanno sistemando una dopo l’altra. Chiusa in un’orgogliosa solitudine, sente il tempo che passa inesorabile, la giovinezza che scorre via. Si chiede se riuscirà ancora per molto a occuparsi di se stessa da sola e se la sua autosufficienza non sia in realtà che una prigione nella quale ha deliberatamente scelto di rinchiudersi.
Decide dunque di partecipare a un gioco a premi: in palio un marito senza volto, un uomo con cui stipulare il sospirato contratto per la vita. Se lo contenderà con altre due misteriose concorrenti, lungo una strampalata serie di prove e test psicoattitudinali. Lo spunto alla base di Amami, baciami, amami, sposami, la produzione del Gruppo di Teatro Campestre scelta dalla Tosse per inaugurare la stagione del Cantiere Campana, potrebbe apparire come una paciosa presa in giro dei meccanismi abbrutenti di siti d’appuntamento, serate per cuori solitari e programmi di ricerca dell’anima gemella. Gli elementi ci sarebbero tutti, a cominciare dalle prove cui viene sottoposta la protagonista, congegnate con evidente intelligenza satirica. Potrebbe anche apparire come una satira sulle ossessioni tutte femminili per il matrimonio da sogno, per l’uomo ideale, per quell’idilliaco quadretto artefatto nel quale fissare l’inizio di un cammino di possibile felicità a due (memorabile il monologo su Gesù). Le divertenti battute sul matrimonio, in questo senso, non mancano di certo, così come la capacità di ricercare il paradosso e il lato tragicomico negli stereotipi sull’argomento. Ci sono anche delle impennate sentimentali e una forte e dichiarata componente autobiografica (si pensi alla scena delle diapositive), compensate da un innato talento per la smorzatura, che permette di evitare il patetismo e far ricacciare indietro la pericolosa lacrimuccia tanto a Francesca quanto allo spettatore. Eppure, ridurre a semplice sberleffo o a giochino autoreferenziale il nuovo spettacolo della brava Elisabetta Granara - qui attrice protagonista, regista, autrice insieme ad Alberto Tamburelli e capocomica di se stessa - sarebbe del tutto ingeneroso e scorretto. Dietro le risate e i ghigni legati a una sarcastica lettura della realtà, a emergere con energia è infatti una riflessione non banale sulla solitudine, sulla paura di affrontare la vita e le prove del tempo, sul terrore inconfessabile di disperdere se stessi, i propri sogni e i propri sentimenti in una condizione di perenne autodifesa dall’amore. E’ forte quindi il sospetto che qui, come nei precedenti spettacoli della giovane drammaturga e regista, il sarcasmo non sia che un colore, un espediente. C’è un fondo di tenerezza autentica che lascia disarmati e che costituisce probabilmente il cuore di un teatro ancora in divenire ma già ben più che riconoscibile. Da recuperare, a mesi di distanza dal primo passaggio genovese nell’ambito della rassegna Scenario alla Tosse.