Spesso basta cambiare prospettiva per trovare nuovo senso in un testo. Lo sa bene Tim Crouch, autore, regista e performer britannico, attivo principalmente a Brighton. Alla sua fama ha infatti contribuito l’incontro drammaturgico con il Bardo di Stratford-upon-Avon, da cui è scaturito negli anni il ciclo I, Shakespeare. I testi che lo compongono sono riscritture incentrate su singoli personaggi secondari di celebri opere shakespeariane, assurti per la prima volta a protagonisti, a voci narranti attraverso cui decostruire dall’interno trame e dinamiche di tragedie e commedie così note da non avere più, a prima vista, zone d’ombra da cui poter far emergere letture inaspettate.
In Italia, il suo lavoro ha recentemente suscitato l’interesse di Fabrizio Arcuri, fondatore dell’Accademia degli Artefatti e condirettore artistico del Teatro della Tosse, da sempre attento alla scena inglese contemporanea. Proprio a Genova il regista romano ha deciso di portare in palcoscenico tre titoli del ciclo (Io Fiordipisello, Io Banquo, Io Cinna), riprendendo il discorso iniziato la scorsa stagione con I, Banquo (2005), semplicemente Banquo nella traduzione di Pieraldo Girotto. Quest’ultimo testo, interpretato dal bravo Enrico Campanati, volto storico della Tosse, è un libero adattamento del Macbeth (1606) dedicato alla figura del generale scozzese fatto ammazzare nel corso dramma dal nobile regicida. Calato in una scenografia appariscente, dominata da un ingombrante bancone bianco da night club, dalla consolle del tecnico audio (spalla silenziosa sempre presente sul palco, a incarnare il figlio Fleance) e da un amplificatore per chitarra, il dramma shakespeariano si trasforma in monologo, in un one man show condotto da un mattatore in completo immacolato alla Tony Manero. Banquo, qui fantasma in preda alla logorrea molesta, torna dall’Aldilà e, aggirandosi tra i posti a sedere della sala, si rivolge direttamente a un pubblico inaspettatamente privato del tranquillizzante anonimato fornito dal buio, ripercorrendo i fatti dal suo esclusivo punto di vista. Con foga, racconta l’efferatezza e il dolore, l’ambizione e gli omicidi, la maledizione oscura - da cui era impossibile difendersi - rappresentata dalle profezie di fortuna e sventura (veri e propri motori del testo di Shakespeare) delle Streghe, inserendo poi un dubbio atroce, ancor più persecutorio e indelebile del sangue con cui si imbratta progressivamente il vestito: ovvero cosa sarebbe successo se, al posto di Macbeth, il destino di assassino del proprio re fosse capitato a lui, se cioè fosse stato Banquo, soldato valoroso e amico leale, a essere spinto verso crimini orrendi per sete di potere. A cambiare, dunque, non è solo la prospettiva interna sulla tragedia, ma la fruizione stessa del testo e della rappresentazione, con gli spettatori non più immobili ad assistere all’articolarsi dell’azione attraverso il tormento crescente di Macbeth, ma trascinati nella rievocazione, coinvolti direttamente e addirittura trasformati in personaggi (Immaginate! è il tormentone) dallo spirito nervoso di Banquo. Questa scelta, tanto rischiosa quanto intrigante, offre al tutto dinamismo e, se possibile, nuova angosciata drammaticità, gettando luce rivelatrice su una figura troppo spesso trascurata nelle messinscene di quel coacervo di incubi e ossessioni laceranti che è il Macbeth. Il risultato finale è uno spettacolo coinvolgente, mai prevedibile, controllato disinvoltamente da un prim’attore abile a sopperire con compassato mestiere all’apparente estraneità all’inquietudine macabra di personaggio e scrittura drammaturgica.