Henrik Ibsen (1828 – 1906) scrisse I pilastri della società (Samfundets Støtter) nel 1877, un testo che denunciava l’ipocrisia e gli intrallazzi politici ed economici che segnavano la società norvegese del tempo. Denuncia che ha non pochi elementi validi anche per l’oggi e, in questo senso, si presta in modo particolare ad un’attualizzazione.
Gabriele Lavia, in veste di regista e interprete, ha scelto una via diversa, quella che punta più alla ricostruzione filologica del testato e della scenografia piuttosto una incernierata su un riferimento ai problemi, politici ed economici, dei giorni nostri. Ne è nata una mega produzione a cui hanno concorso tre importanti teatri (Roma, Firenze e Torino) e che ha permesso di avere in scena ben diciannove interpreti. Certo il discorso finale con cui il console Karsten Bernick rivendica, senza fasi pudori, le menzogne e gli intrallazzi di cui è stato protagonista, quali ingredienti naturali dell’avanzare della modernità, ricorda non pochi aspetti di un recente passato italiano e di un incombente presente. Tuttavia si tratta di riferimenti che potremmo definire naturali nel senso che non poggiano su una particolare lettura del testo, ma fanno leva sul ripetersi generico di situazioni di degrado che giungono sino ai nostri giorni. E’ una rivendicazione della forza che ricorda quella fatta dal capo dei capitalisti ne Il tallone di ferro (The Iron Heel, 1908) di Jack London (1876 – 1916), romanzo non a caso pubblicato un paio d’anni dopo la morte del drammaturgo norvegese. La storia narrata in questo copione è nota. Il console Karsten Bernick vive rispettato da tutti in una cittadina della costa norvegese, in realtà è un intrallazzatore che inanella affari e trame politiche. Un pilastro della società che custodisce un terribile segreto: anni prima suo cognato si era assunto per lui una doppia colpa, quella di avere per amante una giovane attrice e di aver rubato la cassa di un’azienda in realtà sull’orlo del fallimento. Tutto andrebbe liscio se colui che l’opinione pubblica ritiene un ladro e un malfattore non ritornasse improvvisamente dall’America e reclamasse la dignità del suo nome. La vicenda intreccia echi di lotte operaie, riparazioni navali mal fatte nel cantiere di proprietà del console, losche speculazioni ferroviarie. E’ il ritratto di una società apparentemente perbenista, ma corrotta e classista. Un preannuncio dell’oggi che la regia non affronta con forza preferendo lasciarlo sullo sfondo affidato alle intuizioni degli spettatori.