Vittorio Alfieri (1749 – 1803) - drammaturgo, poeta, scrittore e autore teatrale – ha scritto Il divorzio, commedia in cinque atti, attorno al 1800, pochi anni prima della morte e dopo il ritorno a Firenze deluso dalla violenza della Rivoluzione Francese che, in un primo tempo, aveva salutato con entusiasmo (Parigi sbastigliato, ode in seguito rinnegata).
Questo drammaturgo è noto soprattutto per le tragedie dai toni roboanti che ne hanno fatto uno degli precursori del romanticismo ottocentesco. Le sue commedie contengono, invece, non pochi riferimenti critici e morali alla società che lo circonda, meglio che sta avanzando. Nell’opera in questione sono presenti alcuni graffianti evellenti satirici nei confronti dei vezzi matrimoniali del tempo, primo fra tutti quello d’inserire nei contratti nuziali il diritto della sposa di dotarsi un uno o più cicisbei, vera e propria licenza a legalizzare qualche amante. Vero che gran parte delle unioni erano contratti d’interesse stipulati fra i genitori degli sposi, per cui il diritto di cicisbeo, poteva anche sembrare una sorta di risarcimento sentimentale nei confronti della moglie. Nel testo in questione, ambientato in una Genova già allora indentificata come tempio dell’avarizia, assistiamo allo scontro fra una sposa frustata e il marito gretto e interessato a proposito del destino nunziale della figlia che alla fine, grazie al contratto imposto dalla madre, andrà sì a nozze con un ricco vegliardo, ma acquisirà il diritto a un paio di cicisbei che, ingenerosamente, sottrarrà alla corte materna. Beppe Navello ha affrontato il copione con un obiettivo ad un tempo filologico e spinto. Filologico in quanto ha conservato la struttura del copione con pochi interventi mirati, soprattutto, a ridurre l’organico della compagnia. Spinto in quanto sono stati forzati, sino al grottesco, personaggi e toni. Ne è nato uno spettacolo piacevole anche se non particolarmente popolare, interessante più che riuscito.