Alla base di Not here not now c’è la partecipazione di Andrea Cosentino alla performance realizzata da Marina Abramovic al Pac di Milano nel 2012, grande evento che vide il coinvolgimento di un pubblico pagante (quindici euro a biglietto) in un’ovattata bolla di silenzio e meditazione. L’occasione aveva permesso all’attore e drammaturgo di entrare in contatto diretto con le provocazioni sfacciate e l’imperturbabilità totemica della performer belgradese, una delle figure più discusse su piazza, amata e odiata con la stessa morbosa intensità da cultori della body art e stampa internazionale.
Irraggiungibili vette d’arte metafisica o biechi eccessi da vernissage metropolitano? Le risposte non sono mai – e mai saranno - univoche, la tendenza a sfottere nasce invece quasi spontanea. Ne sa qualcosa Paolo Sorrentino che, nel suo ultimo film La Grande Bellezza, ha fatto riprodurre ad Anita Kravos le fumisterie di un’improbabile ma riconoscibilissima artista concettuale slava che, dopo aver cercato di fracassarsi il cranio contro l’acquedotto romano sull’Appia antica, svicolava dalle domande troppo insistenti dell’intervistatore Toni Servillo (che cos’è la vibrazione?) trincerandosi dietro traumi imprecisati e pulsioni erotiche insopprimibili. Omaggio velenoso, la parodia sorrentiniana si ciba di stereotipi sempiterni: dalla megalomania di facciata dei sedicenti performer alla banalità ricercata delle loro sortite, perfette per un pubblico desideroso di gesti estremi dal significato talmente inequivocabile da aprirsi a mille astruse interpretazioni. Tutti elementi, tutti spunti critici che ritroviamo nello spettacolo dell’attore-autore di Antò le Momò. Qui, insieme ai riferimenti un po’ approssimativi all’eterna questione del nesso arte - vita e al raffronto sempre sarcastico con la campionessa dell’autolesionismo concettuale (Abramovic e Cosentino: chi sta seduto sulle spalle di chi?), la sua lente d’ingrandimento pare concentrarsi soprattutto sull’intreccio tra marketing e arte contemporanea, con la trasformazione dell’artista in brand. La carne al fuoco è dunque tanta. La lettura, per esempio, di stralci serissimi di un’intervista tratta da un inserto femminile – nella quale si rievoca l’infanzia infelice ai tempi di Tito – diventa l’occasione per creare uno sghembo parallelismo con il proprio passato, facendo emergere la voce e le movenze di una soffocante madre abruzzese, tutta filastrocche e cucchiai per imboccare. Di fatto ogni percorso si esaurisce volutamente in smorzature comiche: l’andamento dello spettacolo è irregolare, l’assemblaggio di brani disomogeneo, e azione e racconto si disarticolano in una sequela di contro-provocazioni, piccole beffe e laconiche autocritiche. L’insieme finisce così con l’oscillare tra l’happening parodico, il monologo semi-serio, la stand-up comedy, le iterazioni frettolose con il pubblico in sala e le proiezione di genialoidi filmati stile MoMA (realizzati da Tommaso Abatescianni), fino all’inevitabile travestimento vero e proprio in un’Abramovic dai tacchi vertiginosi e ai conclusivi schizzi di ketchup d’ordinanza. Terminata la decostruzione – dialettica e non – delle tecniche retoriche e seduttive dell’artista serba, nel perimetro della performance si compie la dissacrazione finale, lo sbragato e raffazzonato abbassamento dei solenni riti abramoviciani del passato, come Rhythm 10, Art Must Be Beatiful o l’inquietante Lips of Thomas. Ne risulta perciò un colto e scombiccherato teatro-cazzeggio dalle molte intuizioni gustose, nel quale però l’attacco iconoclasta alla presunta venditrice di esperienze sensoriali farlocche si stempera parzialmente nel divertimento epidermico e immediato generato dalle scimmiottature e dal processo di progressiva astrazione alla quale è sottoposta questa nonna della performance art, il cui cognome è non a caso storpiato nelle didascalie dei video (Agrumovic, Appiedovic, Albuiovic, Astemiovic e simili) come se la parola Abramovic in sé non indicasse tanto una singola performer quanto un’idea precisa di artista (velleitario), di esperienza artistica (esoterica) e di fruizione della medesima (basata sulla complicità dell’adorante borghesotto di turno). Certo, si sghignazza quasi ininterrottamente ed è incontestabile l’acutezza dell’operazione, ma resta il dubbio che per frantumare o al limite scheggiare davvero l’icona sia di fatto più efficace lo sputtanamento istantaneo e puramente figurativo, una distorsione-lampo - come nella sequenza cinematografica sopracitata - anziché la raffinatezza di un più o meno prolungato gioco intellettual - teatrale. Con buona pace di questo teatrante Marina Abramovic, se affrontata nello spazio-tempo della performance, è imbattibile: pur non divertendo (e come potrebbe?) fa oggettivamente più ridere, proprio perché non dovrebbe e non vorrebbe farlo. Le iperboli e i paradossi della sua arte, costruita su contraddizioni ostentate, provocazioni gratuite e sentenze tautologiche, possono renderla risibile senza che tuttavia venga meno l’aura che da sempre la circonda. La maschera di granitica ieraticità di chi è divenuto celebre fustigandosi su croci di ghiaccio o incidendosi stelle di David sulla carne viva, viene da riflettere a mente fredda, non la si può scalfire neppure con la bomba atomica del buonsenso borghese. Figuriamoci con l’intelligenza e l’umorismo di un’ingegnosa parodia teatrale.