Un paese qualsiasi, in un mondo qualsiasi, è scosso da una pioggia incessante. Gocce infinite cadono dal cielo colpendo le teste di uomini senza volto, mentre per le strade è in corso una guerra civile silenziosa che moltiplica i cadaveri. Quattro personaggi spuntano dall’oscurità di un condominio per raccontare l’orrore quotidiano nel quale si dibattono giorno dopo giorno, ora dopo ora. Sono l’Uomo qualunque, l’Uomo con l’ombrello, l’Uomo col fucile e l’Uomo con la pistola: le loro storie racchiudono tutta la banalità del male, e del potere che lo alimenta.
Tra acqua, ombre minacciose e violenza, il quadro che fa da sfondo a Discorsi alla nazione, l’ultima fatica teatrale di Ascanio Celestini, appare dunque oltremodo cupo. Ma del resto l’artista romano - scrittore, regista e attore dalle impressionanti e proverbiali doti affabulatorie - non può certo essere accusato di aver mai avuto paura del buio. Il suo teatro di narrazione, negli anni, non si è infatti risparmiato perlustrazioni delle sofferenze più acute, dei disagi più nascosti, favorendo grazie a un’oralità vorticosa l’emersione di storie esemplari di ordinaria sopravvivenza, e una galleria di umili (operai, moderni precari, semplici matti) costretti ai margini da ingiustizie ataviche e da oliatissimi meccanismi di sopraffazione sociale. In questo nuovo collage di monologhi il discorso prosegue sul filo della metafora, tra risate sporadiche e amare, con lo spettatore trascinato a forza in un non-paese che ha tutti gli scompensi, tutte le brutalità, tutte le tare e tutta l’ironia acida e beffarda dell’Italia di oggi. I quattro innominati ci parlano di alienazione profonda, di nevrosi incontrollabile, di un desiderio di rivalsa sul più debole che ha valore di liberazione momentanea. Ognuno è carnefice – in base alle proprie possibilità, naturalmente – e ognuno, nel suo affaccsi alla finestra in cerca di un interlocutore immaginario, si trasforma in piccolo tiranno, in ridicolo dittatore avido di consenso, comprensione o quantomeno complicità. Alla fine, non a caso, è proprio una definitiva personificazione degli interessi capitalisti, un vero e proprio Padrone/Presidente a comparire al centro della scena per tirare le fila, lanciandosi in un’inarrestabile rievocazione dell’eterna storia di sottomissione del popolo alle esigenze economiche delle classi dominanti. Basta una breve, superficiale sintesi, insomma, per capire l’ambizione dello spettacolo, che pur non risultando tra i vertici della produzione del nervoso cantastorie, ha se non altro il merito di affondare il dito nelle piaghe politiche e culturali di un paese smarrito, e forse ormai incapace di ritrovarsi.